«Responsabile» a chi? Nel lessico della crisi di governo, l’aggettivo è diventato un marchio di infamia, a causa del lascito di una storia recente in cui la parola «responsabilità» è stata usata come eufemismo per imbarazzanti cambi di casacca parlamentare.

Anche l’accusa opposta di «irresponsabilità» suscita però reazioni stizzite. «Siamo dipinti come irresponsabili», ha scritto Matteo Renzi, dopo lo strappo con la maggioranza sancito dalle dimissioni delle due ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti. Per il leader di Italia Viva la vera responsabilità è invece «dire la verità» e «lasciare le poltrone» a suggello della forza delle convinzioni.

Se servisse una prova della profondità in cui è penetrata la forma mentis dell’antipolitica, questa nuova crisi di governo ne offrirebbe più d’una.

Il tentativo di formare una maggioranza attraverso le procedure della democrazia parlamentare è rappresentato come un mercato delle vacche. E i ministeri, anche detti «le poltrone», diventano nient’altro che privilegi, premi per gli appetiti di una classe politica incapace di distinguere il bene pubblico dal tornaconto privato.

È significativo che a farne le spese, in termini di degradazione lessicale, sia il concetto di responsabilità, che ha accompagnato, fin dal Settecento, la storia della democrazia rappresentativa.

La relazione tra governo e cittadini

Come evidenzia Vittoria Franco nel suo libro Responsabilità, la parola, entrata nel lessico della politica grazie soprattutto alla Rivoluzione francese, «trasforma le relazioni tra governo e parlamento, tra cittadini e Stato».

La responsabilità di rappresentanti e ministri implica il riconoscimento del potere che questi detengono e dei limiti che ne impediscono l’uso arbitrario, mentre li rende soggetti autonomi, capaci di farsi carico delle conseguenze del proprio agire, anche pagando – politicamente – per eventuali errori. La radice respondeo contiene infatti l’impegno a rispondere di qualcosa e a qualcuno.

Per arrivare ad essere svuotata di significato nel discorso pubblico italiano, e trasformata in espressione di pura ipocrisia, l’idea di responsabilità ha dovuto essere privata del suo contenuto e del suo carattere relazionale, cioè mutata in una postura autoreferenziale, senza un «di cosa» e senza un «a chi».

Essere responsabili, senza virgolette, significa al contrario avere ben chiaro l’oggetto del patto tra rappresentanti e rappresentati, la posta in gioco dell’esercizio del potere.

Oggi, in particolare, significa tenere davanti agli occhi la peggiore crisi sanitaria, sociale ed economica che l’Italia sta vivendo dal dopoguerra. Ricordare le decine di migliaia di morti, che sono il nostro presente, mentre il conflitto è interamente incentrato sul «dopo» da costruire. Ma anche guardare in faccia la deprivazione educativa, e l’abisso di povertà che si sta spalancando qui e ora. La Banca d’Italia ha certificato la più forte contrazione dei redditi degli ultimi vent’anni, solo in parte contrastata dalle misure di sostegno, e destinata ad aggravarsi nei mesi a venire.

È difficile vedere un esercizio di responsabilità politica nel comportamento di chi apre una crisi di governo in uno scenario simile (con motivazioni peraltro incomprensibili ai più). Ma anche un governo che si reggesse d’ora in avanti solo su numeri precari, senza un programma chiaro, verrebbe meno al suo compito di rispondere ai cittadini nel merito dei problemi.

Da una parte c’è la dedizione ai principi senza attenzione alle conseguenze; dall’altra, l’attenzione alle conseguenze senza una causa comune.

Passione e lungimiranza

La politica, sosteneva Max Weber, richiede «passione», nel senso di dedizione a una causa; ma questa da sola non fa l’«uomo politico». Tra le qualità decisive, accanto alla passione, ci sono la «responsabilità» nei confronti della causa stessa, e la «lungimiranza» di chi sa porre una distanza tra sé e la realtà.

Vi sono invece, scrive, due tipi di «peccato mortale» sul terreno della politica: «l’assenza di una causa» e «la mancanza di responsabilità».

A indurre i politici nella tentazione di commettere uno di questi due peccati, se non tutti e due insieme è «la vanità», ovvero «il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile».

Non si tratta di acquisire o restituire «poltrone», che non sono mai la proprietà di chi le occupa, ma di esercitare la responsabilità ad esse collegata, con un occhio ai principi e un altro alle conseguenze. Nella consapevolezza che c’è un mondo là fuori in attesa di risposte.

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