Alcuni giorni fa, durante la notte, nel quartiere romano del Quadraro si consumava una vistosa forma di protesta: i noti murales che ne impreziosiscono le strade sono stati ricoperti di scritte contro la cosiddetta gentrificazione. Si voleva così denunciare quel massiccio riassetto di interi pezzi di città, che comincia con un graffito sul muro e culmina infine nelle centinaia di locali identici tra loro che si fanno guerra con saldi su spritz e patatine fritte. Eppure, ben al di là delle lotte di cantone urbano, la sconsiderata protesta in scritte cremisi, che ha vandalizzato un chilometro e più di street art, significa assai più di quanto dice: essa sintetizza un’epoca, come la nostra, in cui la protesta fallisce in primo luogo per l’inefficacia delle sue forme.

Tuffato nel mezzo di due consumate arterie del traffico cittadino, la Tuscolana e la Casilina, il Quadraro è noto per alcune peculiarità tipiche del romanticismo romano d’inizio millennio: le case basse del primo Novecento sono delicatamente incistate nelle brutali fatiscenze dell’edilizia di metà secolo, mentre la popolazione autoctona ben s’adatta ai flussi dell’immigrazione fiorente. Ma il Quadraro vanta la capacità unica di dare segno visibile dei contrasti che affaticano l’esistenza sua, oltreché la nostra: in esso si fronteggiano due forme di mobilitazione politica incapaci di trovare un compromesso.

Da un lato, la militanza di quartiere, con tanto di associazioni e reti di solidarietà attiva. La sua origine esibisce il blasone della lotta partigiana: durante la Seconda guerra mondiale, le truppe naziste di stanza a Roma chiamavano il Quadraro “Nido di vespe”, tale e tanta era la belligeranza dei suoi residenti. Da allora, una vena di vitalismo consapevole e ostinato caratterizza l’identità del quartiere. Dall’altro, una più recente forma di attivismo urbano. Negli ultimi decenni, il Quadraro si segnala infatti per la marcata reviviscenza estetica delle sue strade: il progetto MURo (Museo di Urban Art di Roma) ha raccolto una squadra di street artists capaci di iridare il quartiere con la gioiosa policromia di una serie di murales, oggetto persino di visite organizzate.

Per alcuni, però, più che un omaggio è un’offesa. La serie di scritte cui si faceva riferimento in apertura ha dato sfogo a una ridda di accuse che possono sintetizzarsi come segue: sotto il nobile manto dell’arte di strada si cela l’avvoltoio capitalista, che vuol trasformare il Quadraro in una piccola Roma da bere. La protesta, di suo non insensata, si è però rovesciata in gesta brute che hanno a loro volta figliato brutture, e hanno reso le mura di un quartiere romano lo specchio di una cronica incapacità di farsi ascoltare.

In effetti, ben più che fatto di cronaca cittadina, in questo spaccato di microstoria si trova la cifra di un problema, forse atavico, che però ingolfa in particolare le mobilitazioni politiche odierne. Si tratta della bruciante necessità di trovare modalità efficaci per articolare la protesta, cosicché la voce di chi si leva per una causa ragionevole possa non trovare un incaglio nel giustificato rifiuto di ascolto di chi deve pagarne le conseguenze.

Dagli imbrattamenti delle opere d’arte alle occupazioni per il cessate il fuoco a Gaza, dalle interruzioni del traffico per la crisi ambientale all’esclusione forzata di alcune donne ebree dalle manifestazioni dello scorso 8 marzo, sembra che la protesta sappia solo esprimersi come insofferenza, querulo reclamo, troppo spesso zuffa. Su questa scia, ad esempio, si commette l’errore di bruciare in piazza la bandiera d’Israele, come si volesse chiamare a una rinnovata guerra santa della cristianità, quando di certo l’intento di chi ha commesso tale imprudenza era tutt’altro che guerresco.

Ecco: il problema di molte proteste, a differenza che in passato, è che non sanno dotarsi di una lingua. La loro opposizione a quanto trovano odioso è tanto esibizionista quanto muta. Non si preoccupano di produrre nuove idee né di segnare indirizzi di alternativa possibile. Ne consegue che chi non condivide in partenza le ragioni della lotta finisce col provare un’istintiva repulsione, spesso più per la sua forma che per la sua causa. Ed è un peccato cui bisogna rimediare presto, se è vero com’è vero che, diceva Edoardo Sanguineti, la rivoluzione va tenuta sul “terreno delle parole, in quella dialettica delle parole e delle cose” che fa nascere un mondo in qualche modo più abitabile di quello in cui si sta. E se proprio non si vuol produrre un mondo, si usino perlomeno vernici lavabili.

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