L’imbarazzante performance di Giancarlo Giorgetti è solo l’ultimo, il più clamoroso e il più avvilente episodio della sua trentennale biografia politica. Ovvero la sua sconfessione da parte del capo del governo di cui è il più importante ministro e del partito di cui è il numero due. Indifferente al prezzo salatissimo pagato oggi e ancor più domani dal paese, in termini di isolamento e di reputazione internazionale. Lui stesso lo ha candidamente e cinicamente ammesso: si è sacrificato l’interesse dell’Italia agli angusti calcoli di partito, su tutti il suo. Alle dimissioni – il minimo – non ci pensa affatto. Sconcerta, ma non sorprende alla luce del passato remoto e recente.

Il suo low profile dentro un partito non esattamente british gli ha fruttato la nomea del più democristiano tra i leghisti e gli ha procurato una considerazione immeritata. Eppure sarebbe sufficiente un po’ di memoria: braccio destro del Bossi secessionista prima federalista poi, organicamente berlusconiano infine; a fianco del Maroni dedito a fare pulizia e a far dimenticare le gesta della family del Senatur; braccio destro di Matteo Salvini nelle sue molteplici versioni, da quella della piroetta della “Lega per Salvini premier” al tempo del governo gialloverde a quella d’improvviso convertitasi in un sostegno malmostoso al governo Draghi, all’ultima della partnership competitiva con Giorgia Meloni, incalzata da destra.

Tante maschere

Tante maschere, uno zelig, quello di Giorgetti, interpretato senza tradire imbarazzo. Sempre comodamente o scomodamente assiso su cruciali poltrone ministeriali.

Ma basterebbe anche un cenno alla cronaca più ravvicinata: l’umiliazione-capitolazione dell’assenso postumo al nuovo Patto di stabilità capestro siglato a sua insaputa dai due colleghi tedesco e francese; lo slalom sul Mes dapprima dandolo per prossimo alla ratifica presso i partner europei salvo essere smentito da partito e governo; spacciandosi per amico (oltre che ministro) di Mario Draghi che, al dunque, la sua Lega non ha esitato a sfiduciare, lui sempre fischiettando; dichiarandosi contrarissimo all’asse della Lega con Marine Le Pen, ma poi sedendosi in prima fila al convegno di Firenze nel quale Salvini ha chiamato a raccolta l’“internazionale nera” dei sovranisti/populisti europei; mostrandosi ignaro ed estraneo alla decisione della Meloni di tassare gli extraprofitti delle banche, poi sostanzialmente svuotata, ma di nuovo facendo la figura di un distratto passante.

Con questo curriculum è d’obbligo porsi una domanda. Possiamo magnanimamente considerare affar suo che egli non avverta l’esigenza di uno scatto di dignità. Essa è come il coraggio manzoniano, chi non ce l’ha non se lo può dare.

È invece problema nostro, della nazione, per dirla alla Meloni, quello di non poterci permettere, in un tempo come questo, un ministro dell’economia manifestamente irresponsabile. In senso tecnico-letterale, cioè non responsabile, che non risponde delle sue azioni; e in senso politico, ovvero privo di visione, di convinzioni, di spina dorsale. Un commercialista a contratto al servizio di qualsiasi causa e di ogni padrone. Perché qui la faccia (e non solo) ce la mettiamo noi.

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