Se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Questa la sintesi dell’ossessione che sembra avvolgere il sistema mediatico nostrano, sempre incline a creare contrapposizioni per far aumentare l’audience. Cosa alquanto facile quando in campo ci sono effettivamente schieramenti contrapposti e l’uno contro l’altro armati, che negano letteralmente all’altra parte una benché minima forma di legittimità. Quando da una parte c’è un idealismo umanitario che rifiuta ogni principio realistico, dall’altra chi intorbidisce le acque trasformando cadaveri di bambini morti in bambolotti usati per la «propaganda globalista». Quando da una parte c’è una popolazione che conta i morti e dall’altra chi parla di «presunta epidemia», tramutando ogni evento storico nell’incendio del Reichstag del 1933.

Quando da una parte c’è un parere fondato su evidenze scientifiche dall’altra strampalate teorie degne del peggiore e infantile complottismo.

Ma ora che con la guerra russo-ucraina viviamo l’ennesima crisi di questo XXI secolo, siamo sicuri di essere nella stessa polarizzazione da me stesso più volte denunciata come elemento strutturale del nostro tempo? Ad assistere al dibattito mediatico sembrerebbe persino accentuata. Eppure non mi pare che oggi le posizioni in campo mostrino una divaricazione paragonabile agli esempi appena ricordati, dove ci si è persino divisi di fronte all’oggettività di un virus. Una rappresentazione che pare costruita a tavolino con il più vecchio degli artifici retorici: si prende una parola, la si estrae dal suo contesto e la si fa coincidere con una tesi tout court, che mai nessuno si era sognato di sostenere.

Ma qui, a parte le ali più estreme, che nemmeno trovano ospitalità nel dibattito mediatico, non c’è nessuno che fa l’elogio di Putin, che neghi la legittimità della difesa ucraina o che non condanni l’invasione russa di uno stato sovrano. Ci sono distanze, si direbbe con un linguaggio geopolitico, tattiche non strategiche. Ci si domanda se l’invio di armi (che personalmente sostengo convintamente) aiuti a giungere a una pace o prolunghi la guerra a dismisura. Ci si interroga sulle cause storiche del conflitto, a cominciare dall’espansione della Nato dopo il crollo dell’Urss. Oppure, dal lato opposto, sulla natura dell’imperialismo russo, che è autonomo rispetto a qualunque azione dei paesi vicini. Antitesi relazionali classiche (non a caso presiedo un’associazione, di nome Lech Lechà, che si occupa di filosofia relazionale), che rinviano al vecchio problema dell’uovo e della gallina: impossibile dire chi venga prima. Impossibile dire dove sia l’azione e dove la reazione. Va detto che la contrapposizione è alimentata dagli stessi protagonisti del dibattito che spesso assumono la parte che i media gli attribuiscono in commedia, anche attraverso un uso smodato dei social network, alla cui logica sembra sottomesso lo stesso modo di ragionare.

Parole e fatti

La realtà, però, è quella che ci ha descritto Matteo Muzio su Domani del 18 marzo a proposito del congresso americano: se nelle precedenti crisi avevamo una polarizzazione che aveva penetrato ogni strato sociale, sobillata da soggetti politici in grado di condizionare il processo decisionale in mano ai parlamenti, l’invasione russa ha suscitato un effetto opposto. Putin scommetteva sulle divisioni fra i Paesi Nato, con Usa da una parte ed Europa dall’altra perché diversamente dipendenti dal gas russo? La Nato, giudicata cerebralmente morta solo pochi mesi fa, si è ricompattata. Scommetteva, poi, sulle divisioni interne all’Ue? Sono tornati all’ovile di Bruxelles persino i paesi di Visegrad, diventati campioni della solidarietà. Scommetteva su un occidente in declino e impaurito che avrebbe abbandonato Kiev al proprio destino? Men che mai.

Naturalmente, il percorso di questa crisi è solo all’inizio e la scommessa putiniana ha sempre tempo di avverarsi perché il tempo insinua dubbi e logora le convinzioni iniziali. Per ora, però, a parte il chiacchiericcio intorno, la politica ha risposto unita. Non è detto che sia una così buona notizia perché svela quanto avesse ragione Carl Schmitt: la politica si regge sullo schema amico/nemico. Il nemico storico è ricomparso e noi abbiamo riscoperto le ragione di un’identità comune, che non eravamo stati in grado di definire in maniera autonoma.

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