Ho scorso il bancale della saggistica coi sette, otto, dieci volumi, dedicati al centenario della scissione di Livorno e alla nascita del Pcd’I (Partito Comunista d’Italia). Più o meno si dividono tra la rievocazione della frattura consumata allora e l’epilogo della parabola riassunta nella Svolta dell’89.

Fanno sessantotto anni, settantuno se vogliamo prolungare il ciclo al 1991 col battesimo della Quercia. Complicato tenere assieme il tutto, eppure un qualche filo dev’esservi da quel lontanissimo teatro dove un maturo Turati consegnò agli scissionisti la sua profezia: «Ond’è, che quand’anche voi avrete impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario…voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe».

Gli eventi presero una piega diversa, traversarono i due decenni terribili della dittatura, consumarono vite e sacrifici, produssero quel partito simile a una giraffa, animale strano ma reale secondo l’aneddotica togliattiana. Il tutto sino all’89, quello berlinese, dove la storia sterzò bruscamente e impose lo scarto definitivo.

“La cosa”

Chi ha vissuto quell’ultima pagina fatica parecchio a spiegare a quanti non c’erano cosa vollero dire la discussione e la rottura che si produsse. Nanni Moretti gli dedicò un documentario encomiato da Rossana Rossanda (…ha guardato al corpo dell’esperimento e non ai medici che operavano). Mario Tronti lo paragonò a una candid camera tanto erano veraci gli sfoghi dei militanti.

Moretti a titolo scelse La cosa, che poi era la formula spesa nel limbo tra la Bolognina e il simbolo del dopo disegnato da Bruno Magno. Ettore Scola, invece, ci scrisse sopra un vero film, Mario Maria e Mario, con una giovane coppia, tipografo all’Unità lui, farmacista lei, scoppiata in parallelo alla crisi del Pci. Alla fine però facevano pace.

La tregua invece mancò a lungo tra quanti diedero credito all’atto fecondo del più eterodosso tra i segretari comunisti e coloro che, traditi nella fede oltre che nel metodo, volsero vele e rotta altrove. E già. Vallo a spiegare a questi di adesso che una mozione congressuale e la richiesta di fondare un partito nuovo segò il tronco a quel modo, spezzò legami decennali, infranse amicizie di una vita, separò famiglie rodate o fidanzamenti sul farsi. Il tutto col tanto di passione intima, intensa, destinata quasi mai a trascendere se non nel manifestare euforia e lacrime per i propri leader, sempre nel rispetto di uno stile, un codice di parole e comportamenti. Rivelatrice a modo suo l’aggressione verbale di un compagno di base al lucido argomentare di Lucio Magri contro la decisione della Direzione: «abbronzato», lo apostrofò così, si suppone associandone l’incarnato a sintomo di cedimento borghese ritenendola di per sé offesa definitiva.

Il cambio di nome

Forse però anche quel modo di riflettere e rispettarsi conteneva una ragione meno superficiale di quanto sembri. Nel senso di rispecchiare la matrice comune, il sentirsi accomunati in un perimetro – una storia – talmente alta e complicata, grandiosa tragica e dolorosa, da meritare almeno il riguardo delle forme, delle modalità chieste per oltrepassarla senza per ciò stesso comprometterne il senso.

Perché poi, sin da allora, direi fino dal lungo Comitato Centrale chiamato a discutere il cambio del nome (durò cinque giorni, dal mercoledì alla domenica) la chiave suggerita da alcuni fu di fare i conti con l’evidenza: quel partito assai prima della caduta del Muro aveva smesso gli abiti dell’ideologia che lo aveva generato. Da tempo era una forza compiutamente europeista, collocata stabilmente nel campo delle democrazie liberali, aveva archiviato i residui di leninismo e inglobato ceppi ideali, culture, sensibilità lontane miglia da una ortodossia che nulla e nessuno, giunti lì, avrebbe dovuto restringere al vecchio simbolo e relativa denominazione.

A questi fautori del nuovo per via ordinaria (tradotto in modo spiccio: non siamo più comunisti da tempo, ora è venuto il momento di dirsi) replicavano con fervore una base trafitta nell’orgoglio e leadership, autorevoli perché amate, capaci entrambe, base e vertici, di spiegare in modi diversi quanto la tempistica prima ancora del merito riversasse su quella parabola collettiva l’onta del disonore, un marchio di vergogna per un nome meritevole di tutt’altra stima e degno di ricollocazione nella storia d’Italia del secolo a seguire.

Il che, a vederla dall’oggi, era certamente vero, come del resto era maturo e saggio procedere al superamento di nome e grafica non per spogliarsi di una divisa logora, ma per innestare i valori fondanti dell’identità dentro un altro mondo e un’epoca sconosciuta.

Per quindici mesi dirigenti, militanti, iscritti, il cosiddetto popolo comunista, discussero attorno a quelle frasi. Migliaia di assemblee, riunioni, organismi, due congressi, e infine l’approdo che fino in fondo vero approdo non fu. Perché da lì si è poi dipanata un’altra vicenda tuttora irrisolta che ha riguardato l’eredità di quella storia e la sua essenza proiettata nell’oggi. Ecco, la domanda a un secolo rotondo dall’atto fondante è quale filo, laddove esista, si può tendere per trovare un nesso, un legame, che ovviamente non può darsi nel contesto storico e casomai ha da considerare le biografie singole, alcune almeno.

Il ruolo di Gramsci

In verità l’atto in sé, la scissione livornese, trovò la sua egemonia in ciò che successivamente il comunismo italiano evitò con scrupolo rifuggendo da una visione dogmatica del marxismo e da quell’avanguardismo rivoluzionario su cui puntarono nel ’21 Amadeo Bordiga e la frazione ostile a qualunque compatibilità tra socialismo e democrazia.

Antonio Gramsci in quel passaggio non risultò centrale, finì anzi quasi isolato o tollerato per il suo idealismo tardivo. Sarebbero stati gli stessi “compagni” russi a prendere più avanti le distanze dal bordighismo e da elementi estremisti liquidati da Lenin come malattie infantili del movimento. Quindi, archiviata la fase inziale con il suo massimalismo, sarebbe toccato proprio a Gramsci gettare le basi teoriche e materiali di un processo destinato a trasformare la minoranza di Livorno nell’esperienza unica di una forza comunista calata dentro il cuore dell’Occidente e in grado di armare (simbolicamente) un partito di massa come nessuno prima nella storia unitaria del paese.

Siamo nel mezzo degli anni ’20, le Tesi del congresso di Lione a gennaio del 1926 si risolvono in un consenso quasi plebiscitario attorno a un documento in larga misura redatto dal piccolo gigante sardo che a novembre dello stesso anno sarebbe stato arrestato, incarcerato per un decennio sino a spegnerne il fisico, non prima di aver consentito a quel cervello di pensare consegnando al mondo il patrimonio di Lettere e Quaderni.

Di recente Marco Revelli in uno splendido affresco ha formulato per quelle Tesi articolate e ricche la patente di Weltanschauung immanente del comunismo italiano. L’idea che in quelle pagine Gramsci avesse riversato buona parte della propria concezione politica, filosofica, di spirito della storia, fissando in un moto solo le coordinate sulle quali nel dopoguerra Togliatti e il gruppo dirigente avrebbero costruito il Partito Nuovo.   

Non c’è dubbio – si è persino banali a ripeterlo – che nel pensiero gramsciano era come inscritta un’arte discordante, eretica, tanto appariva autonoma rispetto all’ortodossia. Traccia questa, secondo molti, già presente nella riflessione del 1917 sulla svolta russa riassunta in quella formula, La rivoluzione contro il capitale, intendendo la critica a ogni interpretazione deterministica e dunque a un conflitto tra dottrina marxista e prassi bolscevica. Si riferiva allo scarto tra il socialismo teorico come sbocco di un sistema capitalistico avanzato e una rivoluzione esplosa in una dimensione ancora preindustriale.

L’animale strano

Ora, senza quelle premesse tutto quanto è accaduto in seguito, i settant’anni quasi di vita di quel partito, sarebbero potuti esistere? Complicato dirlo, però una certezza ragionevole la si può coltivare ed è che senza quelle personalità – e qui l’elenco da fare porterebbe via spazio, ma un nome, l’ultimo a lasciarci, è dovuto ed è quello di Emanuele Macaluso – senza quelle personalità, dicevo, si sarebbe trattato di una storia diversa.

Con ogni probabilità meno autonoma di come fu, più simile per la parabola al destino tormentato e spesso minoritario di partiti “fratelli”, e ancora meno limpida sul versante del legame con la “casa madre” del moto rivoluzionario, quella Unione Sovietica, dove l’ultimo Berlinguer si reca in omaggio ai funerali di Andropov, siamo nel fatidico 1984, e lì a fine giornata illustra a un giovane D’Alema, coinvolto a sorpresa nella delegazione italiana, le tre regole del comunismo sovietico: «Vedi, la prima legge generale del socialismo reale è che i dirigenti mentono, sempre, anche quando non sarebbe necessario. La seconda è che l’agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi paesi. La terza, facci caso, è che le caramelle hanno sempre la carta attaccata».

Perché nel giorno di un compleanno al quale quel partito non è mai approdato l’ultima nota, tutt’altro che di colore, è nel rammentare come persino al vertice della cupola comunista sedessero personalità dallo spessore indiscusso e, giuro che è vero, dotate di quel senso dell’ironia che tanto pare mancare in questo nostro di tempo dove non solo il ricordare, ma pure il sorridere viene ogni giorno più difficile.

Un tempo vittima di passioni scarne, ambizioni smisurate e la tendenza a giudicare il passato solo dagli errori, che certamente vi furono, cancellando i meriti e una semina che – fosse solo questo e solo questo non fu – ha restituito l’Italia alla libertà e alla democrazia.

Per tutto questo e parecchio altro, molte e molti di noi sono stati – non si sono detti, sono stati – dei comunisti italiani. Per una coerenza lunga decenni a scortare la vita di donne e uomini? Certo, ha pesato moltissimo. Per una ideologia ritagliata quasi da subito come un abito di sartoria distinto dall’uniforme ufficiale? Anche. Ma in fondo per quella parabola dell’animale strano come lo etichettò Togliatti. E che, tutto sommato, merita rievocare interpretando liberamente il senso poetico del Maestro Benni, “La giraffa ha il cuore lontano dai pensieri. Si è innamorata ieri e ancora non lo sa”.

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