C’è uno spettro che aleggia sopra il Pd, la vocazione maggioritaria. Questa misteriosa espressione sta tenendo banco nelle discussioni sul partito fin dalla sua fondazione, quando Walter Veltroni lanciò la sua segreteria con quello slogan.

Allora, il termine aveva una traduzione semplice: contendere al Pdl berlusconiano un partito di altrettanta ambizione e spessore tale da guadagnare da solo, o con qualche vassallo, il premio di maggioranza e andare al governo.

Oggi non esiste più quel contesto maggioritario. Tuttavia si continua ad usare quella locuzione, ma per indicare altro: un partito che parli a tutti, urbi et orbi, nella speranza, illusoria, di ampliare i consensi. Solo che per questo esiste già, da più di cinquant’anni,  un termine più appropriato, il partito pigliatutti.

Una formazione che non si rivolge solo ad un gruppo sociale ben identificato – la classe operaia o i cattolici – ma si apre a tutta la società, diluendo il suo tasso ideologico e allacciando rapporti con una gamma diversificata di  soggetti e organizzazioni. 

Tutti i grandi partiti europei hanno seguito questo percorso e quelli di maggior successo hanno coniugato tradizione e rinnovamento.

Quando Tony Blair raccolse il testimone del processo di modernizzazione del Labour non tagliò i legami con i sindacati e la classe operaia ma affiancò a quella constituency nuove componenti fino ad allora  diffidenti e scettiche sulle capacità di governo del partito.

Divenne così anch’esso, come i Conservatori, un “partito naturale di governo” cioè una formazione a cui affidare con sicurezza le chiavi del paese, in quanto affidabile e competente.

La cosiddetta vocazione maggioritaria, che in senso proprio è condivisa da tutti perché nessuno vuole essere piccolo e irrilevante, va ricalibrata su questo diverso registro: un partito che non pretende di rappresentare tutti, bensì di essere responsabile nei confronti di tutti. Il Pd ha percorso questa strada.  Ha risposto presente tutte le volte che incombeva una crisi di sistema.

Nel momento del possibile default del 2011 ha accolto la chiamata del presidente Napolitano per un governo di larghe intese, invece di andare ad un sicuro incasso elettorale.

Nel 2019 ha accettato di “salvare l’Italia“ dal pericolo Salvini baciando il rospo grillino. E nel 2021 ha ripercorso il disastroso cammino dell’appoggio a un esecutivo di grande coalizione.

Oggi c’è chi accusa il Pd di bramosia di potere per essere andato al governo con chiunque, ma non si levarono molte voci contrarie all’epoca.

Ben pochi sostenevano che a quelle svolte fosse opportuno andare a nuove elezioni. Ma aver conquistato l’alloro di partito responsabile di governo non è stato premiante.

Serve qualcosa in più: una agenda di riformismo radicale che connoti il partito come la punta di lancia e  lo scudo della giustizia sociale e dei diritti. Non una melassa pigliatutti.

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