Il nostro continuo rimuginare sulla pandemia – si poteva fare meglio, si doveva fare meglio, poteva andare peggio e soprattutto, in base a quali principi la abbiamo fronteggiata? – diventa ogni giorno più doloroso e angosciante. La scelta di chi salvare e di chi lasciar morire, seppur inaccettabile per la nostra morale personale, spetta a organismi fatti di individui come noi e che da noi hanno ricevuto l’incarico di prendere decisioni nell’interesse della collettività.

Ciò non accade solo a livello istituzionale e legislativo; sotto di esso ci sono i singoli, che tra quelle leggi si muovono, spesso in base al buonsenso o alla loro sensibilità e esperienza – altri individui come noi, che lavorano nel delicato campo della cura, del confine tra la vita e la morte. Dover scegliere cosa fare a prescindere dalle leggi non accade solo in un ospedale di guerra; accade ogni giorno negli ospedali pubblici, anche dei paesi più evoluti con un sistema sanitario di buon livello. Sono scelte che hanno complesse implicazioni etiche, basti pensare al tema dell’eutanasia, che in parlamento non trova soluzioni ma nella pratica è una procedura già largamente utilizzata.

Si tratta, nel quotidiano, di scelte che possono essere regolate da calcoli brutali ma raffinati, tendenti appunto a limitare la discrezionalità del singolo (come quelli dell’Nhs britannico, che prende decisioni basate sul costo di un anno di vita in più garantito da un intervento. La cifra limite è 33mila euro) o, più spesso, sulla base di una azione reattiva immediata: si salva chi è più in pericolo. O si lascia morire chi non ha più speranze e “vive” un dolore intollerabile, come i malati terminali.

Ora occorre pianificare

Il Covid-19 mette in pericolo, oltre ai soggetti deboli, affetti da più di una patologia grave, gli anziani o i vecchi (che è parola bellissima e che mai mi rassegnerò a sostituire con l’orrendo “grandi anziani”). Il costo sociale di questa caratteristica del virus è stato naturalmente addebitato sulle già magre riserve delle generazioni più giovani, praticamente immuni dalla forma grave e costrette a smettere di vivere per proteggere le fasce più deboli, appunto, i vecchi.

Si è deciso, temo senza troppe riflessioni, di non valutare il costo sociale e individuale degli anni di sacrificio di una generazione intera. Perché ormai di anni si tratta, si va sempre più delineando una endemizzazione della malattia da Covid-19. Il virus rimarrà con noi, sarà contrastato dai vaccini ma non in tempi brevissimi, nonostante il miracolo scientifico di averne realizzati così tanti in tempi incredibilmente veloci. Dunque, ci troviamo ancora in uno stato emergenziale, e le emergenze, è vero, non si fronteggiano con un piano, ma con una reazione, una sequenza di decisioni veloci tendenti a salvare il salvabile.

La situazione è in tutto simile all’abbandono di una nave che sta affondando, il cui principio è sempre stato tuttavia diverso. Il “prima donne e bambini”, significava salvare i più indifesi dal punto di vista fisico e i più giovani. Ma a prescindere dalla decisione su chi salvare, a me sembra più importante rilevare che siamo ancora a quello stadio (reazione e non pianificazione), benché il vascello abbia iniziato a imbarcare acqua da quasi un anno.

Non è più un’emergenza

La pandemia non si può più trattare come un’emergenza, ma come un gravissimo problema socio-sanitario di medio se non lungo periodo. Non si può più applicare il semplicistico e autoassolutorio principio del “salviamo i più deboli” senza pensare al costo sociale che pagano tutti gli altri. Possibile che non ci sia un’idea per preservare sia le vite dei vecchi che quelle dei giovani, in pericolo entrambe in forme e per motivi diversi?

Se eccettuiamo gli anziani e i vecchi che vivono nelle Rsa, dunque in contatto con loro pari e personale di diverso genere e per questo a maggior rischio, il resto della popolazione anziana autosufficiente non ha necessità di contatto quotidiano con gli altri. O per lo meno non ne ha necessità più dei ragazzi. Che però si trovano privati del contatto sociale e fisico proprio negli anni più importanti, quelli della formazione, dell’educazione affettiva e del corpo, della scoperta. Il sacrificio collaterale è dunque che i ragazzi si trovano davanti probabilmente un altro anno pieno di vita in clausura, di scuola a distanza, di buco nella fisiologica evoluzione psicofisica, per la quale il contatto umano (stiamo parlando di persone tra i 12 e i 18 anni) è essenziale, vitale, decisivo per i molti anni che gli restano da vivere.

Che il tema riguardante l’impatto della pandemia sui più giovani non sia stato messo in agenda è reso evidente anche da due caratteristiche ancora non chiare dei numerosi vaccini: non si sa con certezza se e quanto un vaccinato è in grado comunque di trasmettere il virus (arrivano dati confortanti da Israele, ma è presto) e non sono stati testati sui minori di 18 anni, nella maggior parte dei casi. Non si è mai pensato insomma di proteggere i vecchi anche attraverso i più giovani, ottenendone in cambio il ritorno alla vita normale di questi ultimi. Perché non è stato fatto? Lo stiamo facendo, almeno ora che è chiaro che sarà lunga?

Naturalmente proporre soluzioni sarebbe idiota; ma individuare problemi sul medio e lungo termine e immaginare possibili strategie no. È anzi doveroso. Ad esempio, ci si dovrebbe chiedere se non sarebbe sensato pianificare una progressione del piano vaccinale che avanzi in parallelo a partire dai due estremi, a convergere. Una volta messi in sicurezza operatori sanitari e residenti nelle Rsa si potrebbe partire contemporaneamente con gli over 80 e con i 12-18enni, magari organizzando, come un tempo, presidi vaccinali direttamente nelle scuole. Arrivando poi da ultimo alla popolazione d’età media.

Questo non può che essere un pensiero, di natura etica, o un what if, poiché lo stato delle cose ci dice che questi vaccini non sono stati testati sui più giovani. Questo rivela, giova ripeterlo, che non si è pensato ai ragazzi in nessun modo, nemmeno nello sviluppo del vaccino. Perché nei trial non si è pensato di includere test volti a provare efficacia e sicurezza anche nelle fasce più giovani? Perché non lo si fa ora?

Sperperare ciò che non abbiamo

Moderna ha annunciato a metà dicembre l’inizio dei trial per i 12-17enni, ma non ci sono aggiornamenti in merito. Sul sito del Ministero appaiono più di tremila vaccinazioni somministrate a persone tra i 16 e i 19 anni, altre fonti ministeriali confermano che il vaccino non è stato testato sotto i 16 anni. Quindi, per esempio, si potrebbero includere già adesso i ragazzi dai 16 ai 18 anni, penso a quelli che vivranno in questo modo così assurdo la maturità, per esempio. Loro potrebbero ricevere subito il vaccino Pfizer.

La ricerca di informazioni è infinitamente complessa, la lascio volentieri a chi è competente, insieme alla domanda, semplice: perché non pensare al piano “convergente” di cui sopra, mettendo in sicurezza le persone a rischio immediato e quelle a rischio futuro? Perché non provare con ogni mezzo possibile ad avere almeno gli strumenti per proteggere anche i più giovani? Non sarebbe doveroso farlo o addirittura criminale non farlo? E perché, stante il ritardo imperdonabile con cui si sta iniziando a testare il vaccino sui più giovani non si investono risorse per avere periodici tamponi rapidi all’ingresso delle scuole, cercando così di assicurare almeno 3-4 giorni di presenza a settimana? Perché costa ed è complesso, forse? Bene, che si faccia un piano di investimenti (le risorse non mancano) e una attivazione di tale piano, con ogni mezzo.

Pensare di queste tematiche è esercizio complesso e faticoso, che espone a errori logici, a fallacie e sottovalutazioni di dettagli a volte decisivi. Ma questo pensiero, semplice, occorre pensarlo. Senza temere di apparire cinici o spietati, cosa curiosa sarebbe venir così giudicati solo per aver preteso dalle istituzioni maggiore attenzione a tutte le generazioni e non solo a quelle sottoposte a un pericolo immediato. Eppure ciò avviene perché il rischio futuro non è quasi mai messo in conto, nonostante sia quello più rilevante, ovviamente.

Tutto si può superare ma non lo sperpero delle risorse future, che invece, dal clima al sistema previdenziale, fino a quella specie di epifania su chi siamo che è stato il nostro reagire alla pandemia, sono sempre le prime ad essere sacrificate. È tragico sottovalutare il danno formativo e soprattutto psicologico che questa situazione apporta ai più giovani. Non è più un’emergenza. È un problema socio-sanitario di durata indefinita. Occorre pensare una strategia, con freddezza e lucidità, senza cinismo ma nemmeno moralismi e semplificazioni, per cominciare a vedere l’orizzonte per preservare, oltre che le preziose vite dei “nostri vecchi”, anche quelle dei nostri ragazzi.

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