La lobby premieratorum si è mossa. Libertà Eguale, Fondazione Magna Carta e Io Cambio presenteranno tra qualche giorno in una sala del Senato un documento “sottoscritto da persone libere e indipendenti” per patrocinare una larga alleanza tra coloro che vogliono la riforma della Costituzione evitando il referendum. Tra i firmatari, diversi ricordano ancora la bastonata toccata alla riforma Boschi-Renzi al referendum del 2016. “E il modo ancor m’offende". Meglio che sia il parlamento a seppellire il parlamentarismo, un sistema che Carl Schmitt liquidò come il peggio del liberalismo e della democrazia elettorale messi insieme. Un obbrobrio che umilia il potere decisionale, rendendolo dipendente dagli umori della società. In Italia, l’idea di una riforma antiparlamentarista è sgorgata come un rigagnolo per diventare col tempo un fiume largo.

A partire dal mito di Charles De Gaulle, il pluriplebiscitato presidente francese che seppellì l’assemblearismo, come veniva chiamata con disprezzo la democrazia parlamentare. Nel 1964 vennero fondati due movimenti: Nuova Repubblica dell’ex repubblicano Randolfo Pacciardi e Seconda Repubblica dell’ex repubblichino (leggi Repubblica di Salò) Giorgio Pisanò, che condirono l’antiparlamentarismo con l’altro anti a esso associato: l’antipartitismo.

Proposero, appunto, un revisione “antipartitocratica” delle istituzioni, caratterizzata (entrambi i ’repubblicani’ erano in sintonia) da 1) un capo dello Stato che, secondo il modello plebiscitario del presidente francese, incorporasse l’unità della nazione al di sopra del pluralismo dei partiti e 2) un sistema elettorale maggioritario a collegio uninominale con doppio turno. Qualche anno dopo, un altro contributo in questa direzione venne dal politologo democristiano Gianfranco Miglio (destinato a diventare negli anni successivi l’ideologo della Lega Lombarda di Umberto Bossi), il quale tra il 1980 e il 1983 coordinò un seminario di studio, noto come il Gruppo di Milano, che proponeva di risolvere un presunto deficit di autorità dell’esecutivo mediante l’elezione diretta del presidente del Consiglio, e invitava a riformare la Costituzione per liberarla dagli elementi a suo dire arcaici – civismo, eticismo, solidarismo – che impedivano l’accesso dell’Italia a una piena modernità.

Da destra a sinistra, il fiume si allargò, con la famosa “bicamerale”, presieduta da Massimo D’Alema, leader Pds, la sigla che rappresentava l’insoddisfazione e il bisogno di riscatto di una sinistra marginalizzata dalla Guerra fredda e, successivamente, dal declino inarrestabile della sua identità. E venne la cura della bicamerale, con la proposta di una riforma in cui “il primo ministro avesse un mandato diretto da parte degli elettori, invece di essere nominato da un presidente altrimenti impotente che avrebbe preso in considerazione i sondaggi di tutto lo spettro politico”. Sono le parole sarcastiche dell’Economist, che raccontava della sepoltura della riforma da parte di Berlusconi e Bossi. Non perché questi fossero parlamentaristi, al contrario!, ma perché a loro quel compromesso non “conveniva”. E oggi si ricomincia.

Antonio Polito sul Corriere della Sera ha scritto alcuni giorni fa che al Pd la riforma “conviene”; che non faccia l’ipocrita, vista la sua struttura plebiscitaria. L’attuale movimento in favore di una riforma condivisa è convinto che la proposta meloniana vada raccolta e ritoccata. Che, invece di partire dalla questione “elezione diretta del premier” sarebbe meglio partire da quella delle “prerogative” del premier. Il messaggio è diretto alle opposizioni (dalle quali dipende il destino parlamentare della riforma) che non dovrebbero partire dal “no” all’elezione diretta senza parlare di quel che si dovrebbe chiedere al premier.

Una volta chiarito questo punto, sembra di capire, l’elezione diretta sarà una questione marginale. È ingenuo pensare che per Giorgia Meloni la questione dell’elezione diretta sia marginale. Ma tant’è: occorre convincere l’opposizione che “conviene”. E se conviene “s’ha da fare”. Scriveva Giovanni Sartori, certamente non parlamentarista, che eleggere direttamente il premier è questione dirimente, non un fattore secondario, quali che siano le sue “prerogative”. Eleggere un premier, aggiungeva, è come confessare l’impotenza di leadership politica, poiché il premier rappresenta la capacità politica di tenere il partito e, eventualmente, il governo. “Tenerlo” senza l’aiutino della legge fondamentale. Basterebbe una saggia legge elettorale.

© Riproduzione riservata