Tra i problemi politici e culturali che Fratelli d’Italia dovrà affrontare nei prossimi mesi c’è il rapporto con la finanza internazionale. La fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni finanziarie, dopo le euforie degli anni Ottanta e Novanta, è crollata con la crisi finanziaria del 2008 e con quella dei debiti sovrani del 2010.

I movimenti populisti e sovranisti hanno guadagnato molti consensi in questo decennio anche per i sospetti e la sfiducia di molti verso i mercati finanziari.

La retorica del piccolo risparmiatore contro il grande banchiere, del produttore contro lo speculatore finanziario, della piccola corporazione contro le big corporation è stata utilizzata in mondo consistente ed efficace da questi partiti, incluso Fratelli d’Italia.

La finanza internazionale è espressione del considerato “uomo di Davos”, degli “gnomi di Zurigo”, dei “globalisti” che vivono, nella vulgata demagogica, di rendite e speculazioni ai danni del popolo e delle nazioni.

Un capitalismo senza patria e senza popolo, egoista e arroccato nelle proprie istituzioni tecnocratiche.

L’argomento politico, seppure iperbolico, è legittimo e anche antico: l’alta finanza oramai da secoli attira le critiche di tutte le sfumature del pensiero politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra.

Tuttavia, quella del capitalismo finanziario è una realtà, una sfaccettatura importante del potere e chi fa politica è chiamato a misurarsi con esso anche se la questione, come nel caso di Fratelli d’Italia, può creare qualche imbarazzo in virtù del fatto che lo zoccolo duro del consenso è stato costruito con l’antagonismo nei confronti dei “poteri forti”.

Viene da chiedersi perché Meloni, che potrebbe andare al governo in un momento economico molto delicato, non faccia uno scatto di maturità in direzione della finanza.

È nell’interesse nazionale avere un buon rapporto con la finanza globale, specie quando questa deve comprare il tuo debito pubblico.

Partire lancia in resta nei confronti di chi può determinare la fiducia economica nei confronti del paese non è una buona idea. Basterebbe un po’ di pragmatismo, incontri con banche d’affari e fondi d’investimento a cui spiegare il programma economico del partito, fornire rassicurazioni sulla stabilità finanziaria del paese, mostrare apertura verso gli investimenti esteri. Anche perché la “grande finanza” non determina soltanto gli interessi del debito, ma soprattutto investe nella crescita delle imprese italiane. 

Da ultimo, guidare il probabile primo partito per consenso è diverso dal gestire un partito di opposizione del 5 per cento e in questo nuovo ampio elettorato, una fetta ha interesse alla stabilità e al dinamismo finanziario.

Se non è possibile governare contro la finanza internazionale, sarebbe allora meglio provare a collaborarci. Gioverebbe all’interesse della nazione e anche del popolo.

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