In un articolo su Repubblica del 24 gennaio, Chiara Saraceno afferma che «la percezione di un aumento delle diseguaglianze sociali non ha solo a che fare con l'ascensore sociale bloccato per la mancanza di sviluppo», come sostenuto da Luca Ricolfi in un precedente articolo, e non è una percezione soggettiva, ma sarebbe dovuta a un aumento della disuguaglianza della distribuzione della ricchezza, ben più di quella del reddito.

Saraceno cita i dati Banca d’Italia e quelli rielaborati da Oxfam nell’ultimo rapporto aggiungendo che, in una situazione di inflazione alta, i consumi di chi ha redditi bassi non sono comprimibili e non disporre di risparmi cui poter attingere ne accentua il disagio.

Una distribuzione disuguale della ricchezza e l’assenza di sviluppo sarebbero dunque le due chiavi con cui leggere la situazione attuale. In realtà, il problema è più complicato.

Le tendenze nascoste

Non basta constatare che la disuguaglianza sia in aumento o in diminuzione, comunque la si misuri, perché bisogna considerare se la ricchezza varia.

Il grado di disuguaglianza può mutare, infatti, anche a parità di ricchezza totale (ne va di più a un gruppo e meno a un altro).

Ciò che i dati fanno emergere è che la ricchezza totale è aumentata perché è cresciuta quella dei possessori più ricchi, mentre è rimasta costante o è diminuita quella dei possessori meno ricchi. Ed è per questo che il grado di disuguaglianza è peggiorato.

Sono aumentate le rendite finanziarie e i redditi da capitale – tipiche dei più ricchi – mentre sono calati i risparmi e altre forme di ricchezza tipiche dei meno ricchi. Ciò che senz’altro contribuisce alla percezione che le disuguaglianze siano aumentate.

La ricchezza, molto più del reddito, ha a che fare con le condizioni familiari, che determinano le linee di ereditarietà e sono determinanti nell’influenzare la sfera sociale in cui ciascun individuo si muove.

La ricchezza tende a generare ricchezza – il reddito da capitale non viene “consumato”, se non in quote minime, e viene reinvestito – a differenza del reddito che, solo nel caso in cui sia particolarmente alto, può essere “risparmiato”.

In una situazione di reddito costante o in diminuzione (soprattutto se da lavoro), il risparmio si riduce. Il capitale, invece, tende a riprodursi (a meno che non debba essere “intaccato”, come in quelle famiglie che devono svendere il patrimonio) e più è consistente più cresce.

Senza ascensore

L’ascensore sociale è bloccato ed è percezione diffusa, si dice, che questo sia un indice di maggiore disuguaglianza. La mobilità sociale, però, è altra cosa e si riferisce, solitamente, a due fenomeni: il muoversi da una classe (quella della famiglia di origine) a un’altra (superiore), che è la mobilità inter-generazionale, e il muoversi lungo la scala del reddito da una classe all’altra, nel corso di una vita e di una carriera: la mobilità di reddito. In entrambi i casi, la classe è intesa nel senso del reddito ma non solo.

Che nel primo quarantennio del dopoguerra la mobilità sociale fosse alta è un fatto. Per buona parte, questa fu una mobilità di classe ma non di reddito (da contadini o braccianti a operai), almeno all’inizio (mobilità orizzontale).

Nella fase dello “sviluppo”, crebbero tutte le classi e le distanze tra le classi, in termini di reddito non aumentarono così velocemente.

Dagli anni Ottanta in poi, la mobilità orizzontale è diminuita – anche se molti figli di operai sono divenuti impiegati – e ha cominciato a diminuire la mobilità di reddito. Il reddito totale ha continuato a crescere, anche se più lentamente, ma a beneficiare di quella crescita sono stati solo i redditi medio alti.

Ad oggi, il 37.3 per cento degli occupati appartiene alla classe «operai e assimilati» (fonte Istat, Indagine sulle forze di lavoro) e questa è quasi esattamente la stessa quota di vent’anni fa. Il problema è che il loro reddito è in generale rimasto fermo, mentre quello di molti lavoratori qualificati e in proprio, impiegati di alto profilo e manager è cresciuto.

La scuola, poi, è tornata ad essere “classista”: i figli dei laureati vanno al liceo, quelli dei non laureati agli istituti tecnici. Tra operai e assimilati, i laureati sono una quota minima. Tra i laureati, la maggioranza sono i figli dei laureati e dei non operai, così come tra i diplomati la maggioranza sono i figli dei diplomati.

Il grande «avanzamento» ci fu negli anni Settanta, dopo il 1968, quando la società italiana divenne una società industriale e poi post-industriale. Ma, da allora, la mobilità sociale si è ridotta fino quasi a fermarsi.

Disuguaglianza e mobilità, però, sono fenomeni diversi e separati perché il primo si riferisce alla “distanza” tra le classi (sociali o di reddito), il secondo alla possibilità di passare da una lasse all’altra.

È noto che maggiore la mobilità, minore la disuguaglianza, ma non è sempre così e, soprattutto, non è vero il contrario (lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per la relazione tra povertà e disuguaglianza, dove la prima si riferisce ad un “livello” di reddito).

Piuttosto, vale quanto ricorda Saraceno: vi sono categorie sociali, tipologie professionali, il cui status è oggi peggiorato, anche perché il loro livello di reddito è rimasto fermo.

Le risposte

Auspicare solo misure di compensazione e di sostegno – come la discussione sulla povertà sembra indicare, o come anche quella sulle disuguaglianze sembra implicare – non risolve le ragioni che stanno all’origine della bassa mobilità sociale: un mercato del lavoro frammentato, divaricato nelle professioni anche da fattori tecnologici, finirà per penalizzare sempre di più le fasce più basse (e periferiche) cui non è consentito l’accesso a una migliore istruzione.

Un’economia poco competitiva sul piano tecnologico, che continua a puntare sulla compressione dei costi, non favorirà certo la mobilità sociale né la diminuzione delle disuguaglianze.

Non illudiamoci che il problema sia solo la “crescita” perché se questa non è estensiva non farà che peggiorare le cose: se la crescita fosse per tutti, professioni “pregiate” o meno, le cose andrebbero meglio.

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