Per quanto nel panorama internazionale il giornalismo italiano appaia irrilevante, bisogna riconoscergli l’abilità, sia pure involontaria, di segnalare megatrend. In questo caso l’avanzare nell’opinione pubblica d’un sentire illiberale. Fa testo il modo nel quale di regola è rappresentata la guerra di Gaza. Nei nostri quotidiani non mancano ottimi direttori, ottimi corrispondenti, ottimi commentatori e inviati.

Ma quando l’argomento è Gaza spesso entrano in campo cerchie di editorialisti maldisposti verso un principio che distingue lo stato diritto liberale (dal diritto coloniale, per esempio): le azioni vanno giudicate secondo un criterio obiettivo ed universale. “Chi” le compie è secondario rispetto al “che cosa” è stato fatto.

Nel caso di Gaza il “che cosa” è noto: in risposta al pogrom di Hamas il premier Netanyahu annuncia una «poderosa vendetta» e allude ad un passo del Deuteronomio dove si racconta l’attacco delle tribù ebraiche ad una tribù nemica, gli Amalekiti (sterminati, lattanti inclusi). Gli abitanti della Striscia sono considerati un po’ Amalekiti per aver votato in maggioranza Hamas nelle elezioni di 17 anni fa. Così l’esercito israeliano pratica l’urbicidio di Gaza City e sobborghi, con bombe o missili che per tipo e per quantità paiono ad osservatori neutrali del tutto sproporzionati all’obiettivo (lecito) di eliminare Hamas.

Ammazza migliaia di abitanti, in maggioranza donne e bambini; un centinaio di dipendenti dell’Onu, che ritiene filo Hamas; oltre cinquanta giornalisti. Impedisce i rifornimenti di cibo, medicinali e benzina agli ospedali. Non acconsente alla richiesta americana di creare “safe areas” in cui la popolazione possa trovare scampo.

Dichiarazioni un po’ folli di ministri israeliani circa il diritto di radere al suolo Gaza, e affermazioni esplicite del ministro dell’Agricoltura sulla falsariga di un memorandum del ministro dell’Intelligence, lasciano trapelare un’idea che circola nel governo: creare una crisi umanitaria di tali proporzioni da spingere i gazawi a cercare scampo in Egitto o in Europa.

Allo stesso tempo nella West Bank volantini distribuiti da gang di coloni avvertono ii palestinesi che se non scappano in Giordania saranno massacrati. L’ex premier israeliano Ehud Olmert, centrista, ripete quanto il Cairo e Amman non possono dire: il governo Netanyahu vuole spopolare i Territori occupati per annetterseli.

L’ipotesi pare così verosimile che anche l’amministrazione Biden lancia altolà, sia pure con cautela (è in corso il negoziato sugli ostaggi, alcuni dei quali americani). La Procura della Corte penale internazionale, Agenzie Onu e autorevoli ong internazionali per i diritti umani come l’americana Human Right Watch avvertono che Israele sta commettendo crimini di guerra in serie.

Lo schema

Tutto questo in Italia viene letto secondo uno schema binario. La sinistra radicale vede lo scontro tra un colonialismo alleato degli Usa e un movimento anticoloniale, come tale giustificabile a priori, sempre. Quasi tutti gli altri praticano la stessa cecità selettiva, però rovesciata. I più prudenti bisbigliano qualche perplessità sulla strage di civili, ma neppure loro soffermano lo sguardo su quel che sta facendo l’esercito israeliano.

Badano solo al “chi è cosa”. Il governo Netanyahu è l’occidente e la democrazia; Hamas la barbarie che incalza l’occidente. Ciascuno si schieri, o di qua o di là. I renitenti risultano sospetti. Chi giudica falsa l’alternativa viene automaticamente omologato ai gaglioffi che inneggiano ad Hamas in piazza. In ogni caso è antisemita.

E se non è possibile spacciarlo per filo Hamas o antisemita allora si dirà che disprezza il proprio sé occidentale. Oppure, che critica il gabinetto di guerra israeliano perché infastidito dalle virtù israeliane di cui l’occidente è privo – coesione sociale, civismo, disponibilità al sacrificio, fedeltà ad una storia in cui il passato risulta immanente e l’idea di Progresso un po’ balzana, elenca l’editoriale di un quotidiano a larga diffusione.

Questa rappresentazione identitaria piacerebbe a Netanyahu e ai suoi estimatori internazionali – da Geert Wilders, trionfatore nelle elezioni in Olanda, alle destre communitarian e civilizationist. Ma la rifiuterebbero i tanti israeliani che mantengono una connessione ideale non con i sinistri massacri che punteggiano il Deuteronomio, ma con quei pensatori ebraici, religiosi e non, ai quali il liberalismo deve moltissimo.

Si può stare dalla parte dei bambini di Gaza e dei più vulnerabili tra i vulnerabili, gli ostaggi, senza per questo macchiarsi di queste colpe? Si può e anzi si deve, se si vuole essere davvero “occidentali”. Se infatti occidente è l’associazione degli stati di diritto liberali, allora la guerra di Gaza va letta attraverso le categorie dello stato di diritto liberale e di quella sua proiezione che è il diritto internazionale. Chi adotta questa griglia concettuale si trova a disporre di un linguaggio finalmente universale col quale rappresentarsi gli eventi. A quel punto non è difficile giudicare secondo un criterio obiettivo “cosa” viene fatto.

Non si tratta di illudersi che la soluzione del conflitto arabo-israeliano possa venire da un consesso di giuristi o da processi che si terrebbero comunque troppo tardi, ma di prestare ascolto a soggetti per principio neutrali che hanno investigatori sul posto e una conoscenza specialistica - per esempio la Procura della Corte penale internazionale e ong autorevoli come l’americana Human Rights Watch. Queste voci non trovano grande credito nei media europei, ancor meno in Italia.

Per esempio: quando un rapporto circostanziato di Human Rights Watch sostiene che Israele applica nel West Bank un regime corrispondente a quanto lo Statuto di Roma definisce Apartheid e Persecuzione, un opinionismo corretto non liquiderebbe come sciocchezze quelle cento pagine senza averle neppure lette, semplicemente perché l’idea di un Apartheid israeliano risulta indigesta. Valutare l’accusa non significa accettarla. Ma scartarla a priori rivela un preconcetto.

Quando poi HRW afferma che Israele a Gaza sta esercitando il diritto alla difesa in modo tale da infliggere alla popolazione una feroce “punizione collettiva”, media e partiti dovrebbero perlomeno esaminare questa ipotesi, e se non è possibile smentirla, domandarsi cosa diavolo abbia a che fare la destra israeliana con l’occidente e con i tanto declamati “nostri valori”.

Infine: quando si grida al “genocidio” occorrerebbe dare un’occhiata alla giurisprudenza a riguardo, in particolare il capitolo sesto dello Statuto di Roma. Una “punizione collettiva” non è un genocidio, non avendo l’intento di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».

Ma attenzione: se i fatti dimostrassero che Israele sta bombardando per rendere invivibile la Striscia e indurre i gazawi ad un esodo “volontario” in Egitto o verso l’Europa, allora l’ipotesi di un crimine contro l’umanità andrebbe quantomeno esaminata dalla Corte penale internazionale. Non sarebbe sbagliato farlo presente ai membri del gabinetto di guerra israeliano.

Secondi fini

Quando si parla di Gaza la malevolenza con la quale editoriali e programmi di informazione strattonano le opinioni liberal è, così come i bombardamenti, sproporzionata. E come quelli lascia intuire un secondo fine, in questo caso rimettere in riga un segmento di opinione pubblica sfuggito al controllo di partiti e grandi media, scoraggiarne la ricerca autonoma di una propria verità, spegnerne la reazione morale, ricondurlo alla simmetria binaria “o di qua o di là”. Pesare quest’area pare complicato. I sondaggi non aiutano a decifrarla.

In un campione di studenti universitari interpellati dall’Istituto Cattaneo il 56 per cento di quanti si definiscono di centro-sinistra interpellato dall’Istituto Cattaneo condivide l’affermazione falsa e cretina “il governo israeliano si comporta con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei”.

Dobbiamo ricavarne che anche tra i giovani di area moderata e progressista prevalgono “tesi anti ebrei”, come vuole il titolo furbo apparso sul sito di un quotidiano? È difficile credere che oltre la metà degli interpellati sia antisemita, o stupida, o simpatizzante di Hamas. Più probabile che nel questionario non abbia trovato altro modo per condannare i bombardamenti di Gaza.

O che intendesse ribaltare il politically correct per il quale Israele può bombardare impunemente perché Churchill rase al suolo Dresda per sconfiggere il nazismo. Non per questo è corretto spacciare quegli studenti per “anti ebrei”. E infatti quanti di loro nel sondaggio affermano di condividere affermazioni tipicamente antisemite (sul tipo “gli ebrei controllano la finanza mondiale”) sono una percentuale certo inquietante ma molto minore degli studenti di destra, centrodestra e sinistra.

Al netto della quota di imbecilli forse sta emergendo un’area che cerca una sponda politica ed ha sufficiente vitalità per infischiarsene degli anatemi dei media, giudicandoli, in fondo non senza qualche ragione, inadeguati, bolsi, vili.

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