In meno di cinque mesi l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas si è trasformato per molti in una doverosa, formale premessa che prepara l’arrivo di un “ma”. Il “ma” introduce la riprovazione per la sproporzionata reazione israeliana a Gaza.

L’aviazione, i carri armati, i bulldozer, 29mila civili morti, il conto della tragedia che sale continuamente, i milioni di sfollati ormai schiacciati a ridosso di Rafah, dove si aspetta un’altra operazione di terra. Questo è il senso del “ma”. Della premessa non si ricorda quasi più nessuno, fuori da Israele.

Il rischio è che l’atto terroristico all’origine di questo segmento di un conflitto molto più profondo sia quasi ridotto a un pretesto. Nella versione più paranoica addirittura a un evento provvidenziale per Israele, legittimato così a reagire.

La memoria gioca brutti scherzi, nessuno lo sa meglio degli israeliani. Le vicende sbiadiscono, le passioni riscrivono la storia. Ciò che un giorno è evidente, il giorno dopo può apparire confuso e incerto. È successo davvero? In che modo, esattamente?

Il negazionismo è una delle cifre del nostro tempo, il più informato e ignorante della storia umana. 

Hamas ha pubblicato mesi fa la sua contronarrazione dei fatti, nella quale ammette che «forse» qualche «errore» è stato commesso, ma sostiene senza vergogna che il 7 ottobre i suoi miliziani hanno preso di mira soltanto obiettivi militari. I civili sono finiti sotto il fuoco per sbaglio. 

Nella nebbia della propaganda anche questa versione è apparsa, a qualcuno, degna d’essere creduta.

Da mesi il governo israeliano mostra in forme limitate e controllate un video di 45 minuti che fa vedere  gli orrori di quel giorno, così come sono stati ripresi dalle body camera dei terroristi, dai loro smartphone, da quelli delle vittime, dalle telecamere di sorveglianza e dai primi soccorritori. 

È una forma di testimonianza storica, ma anche – non sfugge a nessuno – un racconto organizzato per sensibilizzare e orientare, una forma di uso delle informazioni che legittimamente tutti gli stati e i governi propongono non solo per spiegare, ma anche per convincere e mobilitare.

Lo ha fatto anche qualche giorno fa a Roma, in una proiezione organizzata dall’associazione Setteottobre in collaborazione con l’ambasciata d’Israele in Italia, alla presenza dell’ambasciatore, Alon Bar.

Non si può aggiungere molto al racconto dei dettagli dell’orrore. Ma è interessante vedere o rivedere quelle immagini mesi dopo il fatto, quando le prime polveri dei sentimenti si sono depositate, coperte da strati di ideologie e tifoserie.

Quello che si vede più nitidamente oggi è l’intento genocidario del fatto. Le decapitazioni lasciano senza parole, e non c’è bisogno di aver letto Dostoevskij per sapere che il dolore inflitto ai bambini è il più profondo degli abissi in cui l’umano si trova a guardare.

Quello che colpisce però è altro, sono dettagli meno truculenti e più abominevoli: la caccia casa per casa nei kibbutz, quando non si vedono nemmeno le vittime che i terroristi stanno cercando. Cercano gli ebrei in quanto ebrei. 

Oppure l’esultanza fanatica e invasata della gente che accorre a Gaza quando portano indietro i prigionieri, vivi, moribondi oppure morti, con braccia e gambe piegate dalla parte sbagliata. C’è in quell’accoglienza l’eco sinistra di tutti i movimenti autoritari che hanno infiammato interi popoli.  

Generalizzare stanca. Ma se non si vuole generalizzare allora è meglio particolareggiare, stare quel pezzo della storia, che già svanisce dalla memoria perché siamo passati al prossimo reel dell’orrore. Tutto il resto, inclusa la reazione di Israele, è discutibile. Il 7 ottobre no.

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