Sembra passato un secolo da quando risuonavano in ogni dove invettive contro il ruolo dominante e prevaricatore dei partiti: carrozzoni inefficienti, avidi soltanto di potere e poltrone, sanguisughe della onesta platea di lavoratori, profittatori di tutto quanto la manna del potere potesse concedere loro; casta autoreferenziale, chiusa nel giardino segreto dei propri privilegi.

Questo schiumare di disprezzo aveva però una risacca virtuosa. I partiti non potevano arrogarsi il diritto di comandare, bensì dovevano lasciare mano libera agli esperti, ai tecnici, a chi possedeva competenza e sapere. Infatti, arrivò Mario Monti. Ma l’infelice esito di quella esperienza ha attizzato un calderone di disprezzo anche verso la competenza.

Il Movimento Cinque stelle si è nutrito di questa diffidenza verso il sapere, con esiti fausti per i suoi consensi quanto nefasti per la coscienza civile, che continua ad essere attraversata da una sospettosità opaca per chiunque esibisca qualche expertise. In un paese con uno dei bassi livelli di istruzione d’Europa, con conoscenza logiche, linguistiche e matematiche (i test Pisa) al di sotto della media dei paesi industrializzati, circola un fastidio di fondo per visioni razionali, mentre si abbracciano entusiasticamente quelle emotive e persino lunatiche. 

La critica verso la soluzione tecnocratica avanzata dal presidente del consiglio per gestire il Recovery Fund ha trovato immediata rispondenza e consensi trasversali anche perché si è appoggiata su questo sentimento diffuso.  Ad alimentare le reazioni non c’era solo il fastidio per la scelta solitaria del premier: c’era anche l’idea che la politica dovesse prevalere su qualsiasi ipotesi tecnica.

Anche i partiti hanno competenze in abbondanza e personale di qualità. Ma il punto è un altro. Il loro battere i pugni sul tavolo di Palazzo Chigi, condiviso in toto persino dai Cinque stelle, segna una svolta nella politica italiana perché riporta in primo piano il ruolo primario dei partiti nella vita del governo.

L’idea di un presidente del Consiglio libero dai condizionamenti dei partiti, che ha avuto tanta circolazione nel recente passato (per averne una conferma si invita a sfogliare le vecchie annate dei giornali), è stata buttata alle ortiche: deve rendere conto ai partiti. E così deve essere. Piaccia o meno, sono loro gli azionisti del governo: chi lo presiede è stato indicato da loro, e sono loro a sostenerlo in parlamento, senza il cui voto non ci sarebbe alcun governo legittimo. Quindi, grazie a questa baruffa, da ricettacolo di disprezzo i partiti sono assurti (di nuovo) ad alfa e omega della politica e delle istituzioni. Un cambio di passo che rende obsoleta ogni opzione tecnocratica per l’immediato futuro (leggasi, governo Draghi).  

Tramontata l’ipotesi solipsista di una struttura tecnocratica alle dipendenze della triade  Conte-Gualtieri-Patuanelli, forse sorgerà qualcosa di più collegiale, efficiente e rispondente.  Certo qualcosa di più “controllato” dai partiti. Vedremo gli esiti.

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