In Israele, il 18 aprile si è celebrato Yom HaShoà, il giorno dedicato alla memoria dell’Olocausto che cade il 27 del mese ebraico di Nissan, lo stesso dedicato ai grandi eventi «miracolosi» (nes, miracolo, andrebbe più opportunamente tradotto con prova) che hanno liberato il popolo dalla schiavitù d’Egitto. Va detto che la ricorrenza non ha nulla a che fare con l’europeo Giorno della memoria.

L’unica cosa che condivide è che si celebra il 27 del primo mese dell’anno (il calendario ebraico conta diversi capodanni). Se qui si ricorda l’apertura dei cancelli di Auschwitz, in Israele si celebra la resistenza alle forze nazifasciste, con l’evento simbolo di quella organizzata nel Ghetto di Varsavia. Si potrebbe pensare ad una ripresa d’orgoglio che sconfessi quell’altro pregiudizio europeo che ha descritto il popolo ebraico come passivo, attribuendogli anche un po’ di colpa per tutto ciò che ha subito nel corso dei duemila anni di esilio diasporico in cui è stato ostaggio degli umori della maggioranza ospite.

Non è così. L’ebraismo non celebra mai vittorie militari o reazioni armate. Tanto che la stessa Hanukkà, in cui, come già scritto su queste pagine, si celebra la resistenza armata contro l’assedio greco, non è, contrariamente a quanto vuole la vulgata, un hag, una festa. Per capire Yom HaShoà rubo le parole da un recente libro del docente universitario ed educatore Raffaele Mantegazza, notissimo nel suo ambiente e fondatore di un intero indirizzo pedagogico.

Memoria attiva

Parole in cui pare riecheggiare un antico midrash, dove è descritta la reazione di Mosè di fronte al rovento ardente, che brucia senza consumarsi mai. Roveto non a caso tradotto dal mio maestro Haim Baharier con «irradiante», per la presa di coscienza che ha stimolato nel profeta sommo della tradizione ebraica.

Dopo aver indicato le letture di Primo Levi e Elie Wiesel come porta d’accesso all’ebraismo, Mantegazza scrive che «nelle testimonianza dei deportati ebrei mi ha colpito, fin da ragazzo, come questa strana miscela di religione, ritualità, cultura, fede, speranza, lettura mantenesse una straordinaria forza di opposizione al nazismo e all’annientamento messo in atto dal III Reich. Mi sono chiesto cosa ci fosse di così forte in questa identità così indebolita dalle offese e dalle aggressioni ma mai del tutto piegata.

La mia idea di una pedagogia della resistenza è fortemente debitrice alla forza resistenziale dell’ebraismo». (Elogio dell’ebraismo. Le radici di un’identità e il dialogo con il futuro, Fefè, 2023). Yom HaShoà è la celebrazione di questa capacità. Nessun miracolo, nessuna gloria delle armi, etichetta troppo frettolosamente appiccicata allo stato di Israele a cui viene negato il diritto alla difesa concesso, e giustamente direi, agli altri. Una resistenza morale di fronte ai tanti, troppi tentativi di assimilazione e sterminio che questo antico popolo ha subito nel corso dei secoli e millenni.

Come tutte le ricorrenze ebraiche, anche Yom HaShoà non è il ricordo di un evento passato, ma una partecipazione mnemonica attiva. In pratica, gli eventi non si ricordano, si rivivono. Una capacità tanto più importante in questi tempi di antisemitismo crescente, spinto dai venti nazionalisti, che mai hanno portato buone cose per il popolo ebraico, e dall’antico universalismo dell’occidente, che, anche nelle moderne spoglie dell’antisionismo, ha sempre chiesto agli ebrei di abbandonare i propri «fardelli» identitari, custodendo, però, gelosamente i propri. Quando si dice la pagliuzza e la trave. Siamo sicuri che la millenaria storia ebraica supererà anche questa nuova forma di aggressione, sostenuta in piedi dal suono di quella sirena, udibile, in questo giorno solenne, in tutti gli angoli di Israele.

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