A Matteo Salvini, da «papà», «piange il cuore» per i bambini di Kiev: per i piccoli malati di cancro senza cure, per quelli che devono salutare il padre chiamato alle armi, per quelli che fuggono in cerca di salvezza.

Dismessi i panni del fan di Putin, avvolto in un’improvvisata bandiera pacifista, il proteiforme leader della Lega sta offrendo lo spettacolo di una nuova mutazione.

I social della “bestia” in questi giorni propongono immagini drammatiche, commuoventi, di civili colpiti dall’aggressione russa in Ucraina. E lo slogan: «No alla guerra, Sì alla vita». Nel discorso in Senato, poi, Salvini parla di aprire le porte ai profughi. Posizione, questa, echeggiata anche da Giorgia Meloni.

Sovranisti pentiti? Non proprio. In realtà, pare piuttosto un’operazione volta a coprire con una pennellata di vernice arcobaleno (lavabile) le più trite posizioni scioviniste della destra in fatto di confini, interessi nazionali, e valori tradizionali da difendere.

Per prima cosa, è difficile prendere sul serio questo nuovo afflato umanitario.

Dov’erano le lacrime di Salvini quando, da ministro dell’Interno, chiudeva i porti alle navi cariche di bambini, donne in gravidanza, uomini sfuggiti alla miseria, alle guerre, e ai campi di detenzione illegale e tortura che solo papa Francesco ha avuto il coraggio di chiamare «lager»?

Sembra che ci troviamo di fronte a un classico caso di «cinismo mascherato». Ovvero, come spiega il filosofo Leonard Mazzone nel libro Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi (Orthotes), di una «strumentalizzazione ipocrita di certi valori democratici», come ideali pacifisti ed egualitari, per «rendere socialmente più tollerabile la produzione e la riproduzione di svariate forme di oppressione e violenza».

Nel caso di Salvini, la «maschera» serve oggi a coprire aperte incoerenze con le posizioni sostenute in passato, nonché forme di opportunismo politico e interesse strategico.

Ma c’è di più, perché l’ipocrisia non può evitare di lasciare filtrare anche note di quel «cinismo spudorato» che – Peter Sloterdijk insegna – ha conquistato spazi crescenti nell’opinione pubblica delle nostre democrazie.

Mentre chiede di dare accoglienza «a chi scappa dalla guerra vera, ai profughi veri», il leader della Lega aggiunge che «spesso si parla di profughi finti da guerre finte». E il criterio di distinzione sembra marcatamente etnico e culturale: «veri» sono i richiedenti asilo che fuggono da guerre che ci riguardano, e che sono europei, cristiani, bianchi.

Ancora, c’è il passaggio sulla situazione demografica: i paesi europei si stanno «spegnendo» nel confronto con altre nazioni.

Così il richiamo alla «vita» e alla «famiglia» si fa sinistro, rivelando più di un’affinità con la retorica della stirpe che ispira il nazionalismo di Putin.

Sia lecito allora diffidare di questo sovranismo dal volto umanitario, della sua empatia posticcia, delle sue braccia aperte (ma solo un po’) a chi fugge.

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