Si sente dire spesso nei talk show o si legge sui giornali che quel che andremo a votare il 20 e 21 settembre è un referendum “confermativo” della riforma costituzionale approvata dal parlamento. Niente di più fuorviante.

Non è stata infatti la maggioranza parlamentare ad indirlo per celebrare la propria vittoria con il consenso popolare. Il referendum su una modifica costituzionale non è un plebiscito.

Ecco che cosa dice l’articolo 138 della nostra Costituzione: le leggi di revisione costituzionale ”sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500mila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”.

Quello costituzionale è un referendum per ottenere il quale si mobilita una minoranza numerica dentro o fuori del parlamento. Il referendum è come un’opportunità che i costitutenti hanno voluto dare ai cittadini (e quindi anche alle opposizioni) di esprimersi. Questo referendum sul taglio dei parlamentari non è un plebiscito sul o per il governo. 

La natura antiplebiscitaria del referendum sulla revisione costituzionale è anche al fine di mettere la proposta di riforma al riparo da strumentalizzazioni, che sono comunque sempre possibili. E lo sono anche in questo caso.

La china presa dai partiti della coalizione in questi giorni sembra ripetere quella presa da Matteo Renzi nel 2016: fare del referendum un plebiscito per il governo e i partiti che lo sostengono.

La Costituzione diventa, ancora una volta, un mezzo per raggiungere scopi altri. Per esempio, per ridisegnare la geografia di potere all’interno del Movimento Cinque stelle o per rinsaldare l’attuale segreteria del Partito Democratico. Intendiamoci, si tratta di scopi in sè legittimi (e anche ragionevoli) ma che, quando si incrociano con una proposta di riforma costituzionale possono fare un pessimo servizio alla democrazia e alla politica.

Il No è per questo anche un’indicazione sui limiti della “politica politicata” e sulla necessità di ricostituzionalizzare la democrazia. E’ un modo per dire che il livello costituzionale non deve essere assoggettato alle esigenze, pur legittime, della politica ordinaria. 

La proposta di taglio lineare del 36,5 per cento dei seggi parlamentari non è a favore della democrazia e della rappresentanza, ma della sua minimizzazione per dare più, non meno, spazio al potere delle segreterie dei partiti (che hanno da tempo rinunciato ad essere organizzatori di partecipazione). Rientra in un processo, ormai consolidato, di riduzione degli organismi deliberativi elettivi – a cominciare dalle assemblee proviciali (eliminate) e dallo snellimento di quelle regionali. Gli organismi apicali crescono in potere in proporzione diretta allo “snellimento” degli organi collegiali elettivi. La logica è chiara e disegna un’equilibrio di potere spostavo verso l’alto.

Chi ha sensibilità democratica è guardingo perché conosce bene la logica oligarchica o del piccolo gruppo che è naturalmente insita alla selezione per mezzo delle elezioni. E sa anche che per contenere questa logica è necessaria una sinergia di interventi: per esempio, rendere i partiti strutturati e internamente democratici, controllare e monitorare i loro finanziamenti, volere che siano capaci di mantenere attivo il collegamento tra elettori ed eletti. Ma chi si dichiara oggi nemico della casta non ha intenzione di avviare nessuna di queste condizioni di democratizzazione.  

Il taglio lineare dei parlamentari non solo non ci darà più democrazia, ma agevolerà quella casta che dovrebbe abbattere, rendendola più distante da noi e simile ad un club molto esclusivo.

© Riproduzione riservata