Il dibattito sull’educazione e sul rapporto tra le generazioni di adulti e di ragazzi si svolge ormai quasi tutto intorno al tema del disagio psichico degli adolescenti e all’abuso dei cellulari.

Che siano gravi episodi di cronaca scolastica (suicidi, aggressioni ai docenti o ai compagni) o le considerazioni sulla diffusione di nuovi fenomeni sociali, le challenge o gli hikikomori, si cerca nella pervasività dei device e dei social qualunque ragione per le inquietudini e le sofferenze più comuni. Chi si occupa di scuola sa che la pedagogia è invece restia a accontentarsi di letture che sembrano descrivere i problemi invece di analizzarli.

Da una parte perché si rischia di rimuovere i molti elementi di continuità che esistono tra una generazione e l’altra e anche, quindi, la possibilità di affrontare le crisi educative con strumenti che conosciamo e che abbiamo affinato. Dall’altra perché si rischia di non vedere questioni più profonde, che vivono sotto le una sintomatologia disagiocentrica.

È difficile entrare dentro la complessità delle crisi educative, ma potremmo indicarne almeno due tipi: quelle che riguardano il ruolo dell’adulto educatore (docente, genitore) e quelle che riguardano il senso del sapere. Se chi è cresciuto nel Novecento aveva a che fare con una credibilità stabile, determinata da princìpi anche differenti – il potere, l’autorevolezza, la tradizione, l’utilità – oggi nulla di questo appare scontato, nemmeno il perché e come crescere o studiare.

Questo sembra davvero aver poco a che fare con i cellulari in classe o i balletti su TikTok, e ancora meno con le panzane per cui la scuola non boccia più. Ci sarebbe invece una dimensione materiale che andrebbe studiata con rigore insieme alle rilevazioni sociologiche sul disagio degli adolescenti e alle rilevazioni sugli apprendimenti come l’Invalsi, e anzi questa andrebbe proprio correlata ai dati sull’istruzione: si tratta di conoscere e tenere in considerazione come e quanto gli studenti della scuola italiana mangiano e dormono.

(Già nelle tesi del Giscel del 1975 del resto si scriveva quello che sarebbe diventato un tema dell’educazione democratica: «Prima la bistecca e la frutta, e dopo Saussure e le tecnologie educative»).

Mangiare da soli

Mi fa molta specie ogni volta che entro in una classe nuova, che sia la mia a inizio anno, o anche quella dove faccio un’ora di supplenza, e chiedo quanti tra loro facciano colazione, quanti trovino un pasto caldo o qualcuno che cucina per loro quando tornano da scuola, quante ore dormano e se soffrano di problemi di insonnia, le risposte siano molto simili.

Molti ragazzi mangiano e dormono male. Spesso saltano i pasti, a colazione non prendono nemmeno un tè o un biscotto, non hanno spesa in frigo, fanno fatica a addormentarsi, si svegliano nella notte, sono distrutti in classe per il deficit di sonno. E qui non si tratta ovviamente di tutte quelle – molte – situazioni di problemi certificati o seguiti da psicologi: dai disturbi alimentari a quelli del sonno.

Ma di una condizione molto comune, comune tanto più se non hanno avuto un accudimento nell’infanzia o nella pubertà, una cura che non riescono ad avere ora da parte delle famiglie, semplicemente perché i genitori non c’hanno soldi, tempo, capacità.

Molto spesso sono figli unici, o figli di separati di genitori in contrasto fra loro, spesso non hanno i nonni perché i genitori li hanno avuti da grandi e i nonni sono morti o sono molto malati e quindi sono incapaci di aver cura di loro: il risultato è che questi adolescenti passano tanto tempo, spesso a casa, da soli. Questo credo sia un tema generazionale molto preciso: moltissimi studenti mangiano da soli la maggior parte dei pasti della loro adolescenza.

Nasce da qui una richiesta di accudimento è alle volte implicita alle volte plateale? Forse sì. E passa attraverso i soldi per comprarsi da mangiare o l’adorazione per i nonni che cucinano.

I grattini

Un altro segnale singolare che ho intercettato nell’ultimo anno, il primo anno finalmente post pandemico, anche nelle classi del triennio delle superiori (ragazzi dai 16 ai 20 anni), è la diffusione dei grattini.

Gli studenti passano anche le ore di spiegazione, non solo quelle di buco o le ricreazioni, a farsi grattini tra di loro. E non c’entra se sono maschi, femmine, fidanzati, amiche, amici, se c’è una complicità amorosa o qualcosa del genere; il tutto avviene come una pratica del tutto naturale, come quando noi novecenteschi ci scambiavamo i bigliettini tra un banco e l’altro.

Sembra una sorta di grooming generazionale. Lo possiamo interpretare anche questo come il desiderio di un po’ di accudimento, tenerezza, etc.? È un processo di infantilizzazione, un’urgenza di coccole fuori tempo massimo? È difficile dirlo, ma pare piuttosto la manifestazione di un senso accentuato di solitudine, il bisogno di qualcuno di cui fidarsi.

E c’è un altro fenomeno, accostabile a quello dei grattini, che andrebbe studiato in relazione ai processi educativi e della crescita, ed è quello dei video Asmr. Asmr è un acronimo per Autonomous Sensory Meridian Response, si tratta di filmati, spesso lunghi o molto lunghi, anche ricorsivi, in cui gli autori producono rumori, sussurrano, bisbigliano, come se dovessero creare uno strato sonoro che riscaldi l’ascoltatore.

È molto interessante come alcuni di questi video mostrino proprio i rumori che fanno i cibi: il latte versato in un bicchiere, il rumore di una masticazione, o quello che fanno delle patate mentre friggono.

Nel 2021 YouTube ha pubblicato un report per cui i video di Amsr hanno registrato più di 65 miliardi di visualizzazioni, e in questi due anni dopo la pandemia questi numeri sono chiaramente cresciuti a dismisura, gli utenti sono soprattutto under 15. Chiara Amsr, una delle più note creatrici di contenuti Amsr in Italia, ha un canale seguito da un milione e centomila persone.

Fa molta impressione come ci sia una sorta di iato tra il discorso sull’educazione degli adulti e quello che invece è il suono della cosiddetta generazione Z, uno scarto che sembra corrispondere persino a quello che c’è tra una dimensione semantica del linguaggio e una puramente fonetica.

Ma se vogliamo cogliere anche in questo un senso, possiamo riconoscere un pronunciato sentimento di solitudine. Del resto il bisogno di qualcuno di cui fidarsi è anche la speranza di trovare prima o poi qualcuno con cui poi poter sperimentare uno spazio di conflitto e di libertà. Se prima non c’è un interesse, una cura, come può crearsi un desiderio, un percorso di autonomia?

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