Una delle affermazioni che nei talk televisivi raccoglie applausi unanimi è “chiediamo chiarezza e verità”. Il che è naturale quando si parla di piano vaccinale, di contratti tra aziende, di decisioni statali o locali; meno ovvio quando si riferisce ai pareri di virologi o epidemiologi, la medicina è scienza empirica per la quale la verità è ricerca.

La richiesta diventa poi assurda quando pretende di spingersi nella psiche degli individui, esigendo anche da loro opinioni nette su tutto; come se l’incertezza e lo smarrimento dovessero essere subito medicalizzati, per cui a parlarne in tivù vengono convocati gli psichiatri che attestano l’aumentato consumo di psicofarmaci, alcol, droghe.

O rispondiamo alle griglie dei sondaggi senza rifugiarci nell’ignavia del “non so”, o abbiamo bisogno di assistenza specialistica. Ma la maturità della mente si misura sulla capacità di nutrire allo stesso tempo pensieri ed emozioni contrastanti: la chiarezza non ci abita, purtroppo o forse per fortuna.

Possiamo temere che il nonno venga ricoverato in terapia intensiva e insieme provare il bisogno di ridere con gli amici e di flirtare senza limitazioni prossemiche; possiamo, da vecchi, sentirci in colpa perché stiamo frenando l’economia e indignarci se un giovane insegnante ci passa avanti nella vaccinazione; possiamo consolarci perché il lockdown rafforza il nostro legame sentimentale stabile e desiderare la promiscuità; esser convinti che Astrazeneca abbia un accettabile livello di sicurezza, e che l’idea di una vaccinazione à la carte sia assurda, ma tirare un sospiro di sollievo se a noi ci tocca Pfizer; cercare un leader che prenda in mano la situazione e avversare qualunque forma di autoritarismo; capire quanto il consumismo onnipotente ci abbia messo nei guai e non veder l’ora di tornare a una spensieratezza ingiusta.

Non è schizofrenia, non si cura con gli psicofarmaci: è la normale ambivalenza della condizione umana, ce lo insegna l’esperienza e per lunghi secoli ce l’ha insegnato la letteratura.

Le “persone comuni” vengono ascoltate in televisione solo quando si sono rese protagoniste di vicende eccezionali, mentre il privilegio della banalità sembra riservato ai vip. Sono le esigenze dello spettacolo, capisco.

L’unica che ogni tanto (quando non lascia che i suoi autori premano sul pedale del sentimentalismo cheap) ci mostra in atto lo smarrimento reale delle persone comuni è Maria De Filippi a C’è posta per te; e comunque limitatamente a problemi di famiglia.

Per il resto, è come se la normale compresenza di pulsioni e idee contraddittorie venisse confinata al ridicolo delle varie “vox populi”, mentre alle persone serie viene richiesto di schierarsi.

Perfino la letteratura sta prendendo questo andazzo. Sarebbe bello se l’incertezza trovasse il proprio spazio e la propria dignità, senza essere subito inchiodata a una diagnosi; etimologicamente, “diagnosi” significa “conoscere attraverso”.                 

  

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