C’è qualcosa di inebriante nel poter dire una frase semplice, di questi tempi. Una frase come «È un rischio calcolato». La nostra epoca è avversa al rischio, o così la tratteggiamo, immaginando epoche passate più avventurose. I genitori di oggi sono descritti come ansiosi, ma se smettono di esserlo vengono etichettati come irresponsabili. Abbiamo una paura eccessiva e quasi irrispettosa della morte, nutriamo l’ossessione per la messa in sicurezza. Siamo inclini alla preservazione della nostra incolumità, che poi ci sembra molto simile alla nostra identità. Siamo un corpo da difendere, la pelle è un confine invalicabile.

Naturalmente, questa avversione al rischio può stufare e produrre divergenze, come quelli che di colpo dichiarano l’importanza di amare il pericolo, per vivere una vita piena. Fra chi ama e chi odia c’è però una terza categoria che non si esprime in modo sentimentale intorno al tema del rischio, ma sostiene la necessità di calcolarlo. Il rischio calcolato, appunto. Frase che dà la sensazione di una stima fattibile. 

Il rischio è la combinazione di tre elementi che devono essere presenti contemporaneamente: la minaccia, la vulnerabilità, le conseguenze. È chiaro che se non esiste alcuna minaccia, il rischio sarà zero a prescindere dalla nostra vulnerabilità e dalle conseguenze teoriche. Così come è chiaro che anche a fronte di una minaccia tangibile se la nostra vulnerabilità è nulla il rischio sarà nullo. Stesso discorso nel caso in cui una minaccia sia priva di conseguenze rilevanti. Insomma, se uno dei tre elementi è inesistente o quasi, questo basterà a rendere il rischio inesistente o quasi.

La minaccia può essere studiata ma resta un fattore esterno, non possiamo controllarla. Possiamo capirla. Le conseguenze della minaccia sono altresì analizzabili, si può tentare di prevederle, e spesso un rischio nuovo porta a sottostimarle. E la vulnerabilità? La nostra vulnerabilità? Ci appartiene, la osserviamo dall’interno. Ma dall’interno di chi? Dei singoli individui? Della comunità? Di quale comunità? Del mondo intero? Siamo davvero interessati al mondo intero?

La vulnerabilità, la fragilità, è oggi un elemento assai discusso. Spesso si invoca una sua maggiore accettazione. Bisogna accogliere le nostre paure, si dice. Esporle fa bene, diffonde sentimenti buoni, forse ci rende amabili. Abbiamo un rapporto ambiguo con la vulnerabilità e dunque con il rischio. C’è qualcosa di caratterizzante, di personale, nella vulnerabilità. Dà dipendenza.

Chi legge può pensare che questa sia una riflessione sul coronavirus, ma potrebbe anche essere sul maltempo che provoca le inondazioni. Qualche settimana fa una persona mi ha detto: «Sai che a breve Jeff Bezos potrebbe essere morto?» Si riferiva alla missione nello spazio, al rischio di morire in quel modo.

Io non ho capito subito, ho pensato a un rischio astratto, intimo, Bezos che scompare. Minacciato, fragile per motivi oscuri. Per un istante questa immagine silenziosa ha abitato la mia mente. Le metafore sono una stanchezza dell’anima.

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