Vincere!», ordinava Benito Mussolini, chiamando alla guerra l’Italia “proletaria e fascista” e collegando il rombo del cannone, come va di moda anche oggi, al nobile obiettivo di «dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo». «Vincere!», proclamano i politici italiani 82 anni dopo quando vengono chiamati alla pugna elettorale. In un’Italia resa pacifica dal misto di ragionevolezza e scetticismo che la pervade, la cultura politica, a parte pochi esaltati, non pratica il bellicismo del Duce. Piuttosto si affida alla metafora della competizione sportiva. Si fa politica per vincere una gara. Il popolo tifa.

Con la polemica sulla candidatura di Letizia Moratti in Lombardia la politica italiana ha rotto l’ultimo diaframma che la separava dal fantacalcio. Si parla solo di come vincere. In palio non c’è il futuro del paese, tutt’al più il destino di alcune migliaia di famiglie che campano sul seggio conquistato. La composizione sociale dei diversi elettorati, ormai sostanzialmente omogenea, spinge la politica verso la dimensione dell’intrattenimento.

L’imprenditore, il suo operaio e il disoccupato di destra gioiscono all’unisono della vittoria di Giorgia Meloni alle politiche del 25 settembre, il dirigente statale e l’operaio di sinistra ne soffrono insieme. Un tifo interclassista sostiene i partiti. E la politica rispetta la scelta sentimentale di elettori che votano per simpatia («a me ’sta Meloni piace», «Conte mi sta sulle balle», «Letta mi pare moscio»), sicuri che chiunque vinca non intaccherà i loro interessi concreti se non in misura simbolica. L’importante è garantire al popolo circenses cadenzati dall’appuntamento settimanale dei sondaggi per vedere se la propria squadra ha portato a casa i tre punti, anzi i tre decimi di punto. Fantacalcio, appunto.

Non si parla di sanità

Il caso delle prossime regionali è abbagliante. L’80 per cento della spesa regionale è per la sanità che è più o meno allo sfascio. Per le due grandi regioni in palio nella prossima giornata di campionato corrono i due assessori uscenti alla Sanità, Alessio D’Amato nel Lazio e Letizia Moratti in Lombardia. Ma non si parla di sanità, solo di come vincere. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato chiaro: «Il centrodestra sarà unito: nel Lazio troveremo il candidato più forte per vincere». Il candidato del Pd in Lombardia Pierfrancesco Majorino ha così commentato la propria designazione: «Possiamo battere la destra e sono convinto che ce la metteremo tutta. Per vincere serve una coalizione combattiva e il più possibile ampia». Ma per Carlo Calenda (Azione) Majorino non può vincere, e amen, quindi si appella al Pd: «Evitate ora di incasinare anche il Lazio continuando a supplicare i 5S. Almeno una proviamo a vincerla».

Hanno interiorizzato così profondamente la nuova superstizione (la politica è comunicazione) da non rendersi più conto di pensare come se fossero allo stadio, o al casinò. Il leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, notando che i sondaggi danno per perso il Lazio, accusa i politici del centrosinistra di giocarsi la camicia (degli altri): «A questa irresponsabilità da giocatori di poker va contrapposta intelligenza e umiltà. Sappiano i giocatori di poker che non stanno giocando con le fiches ma con le vite dei cittadini del Lazio».

Attorno al caso Moratti la dimensione fantacalcistica trova la sua espressione più compiuta. Rosa Maria Di Giorgi, ex deputata renziana rimasta nel Pd, guarda la disposizione in campo e sentenzia: «Moratti è l’unica chance reale che abbiamo per vincere in Lombardia». L’ex senatore del Pd Luigi Zanda è d’accordo e recrimina su come ha giocato male la sua squadra il 25 settembre: «Non facciamo come alle politiche dove veti e attese inutili hanno determinato la sconfitta. Il nostro primo dovere è mettere al sicuro istituzioni come la Lombardia, sostenendo il candidato con maggiori possibilità di mandare a casa Attilio Fontana e dare una lezione alla Lega».

Dare una lezione alla Lega. Sì, perché ogni partita implica il momento magico della rivincita. Ce lo spiega bene Pierfrancesco Maran del Pd proponendosi (senza successo) come l’uomo in grado di vincere in Lombardia: «Dopo una sconfitta come quella del 25 settembre non si può far altro che mettere a fuoco la prossima sfida, la grande impresa: il centrosinistra alla guida del Pirellone dopo oltre 30 anni». Il sindaco pd di Bergamo Giorgio Gori ha avuto un’idea su come mettere in campo Moratti: non il ticket Moratti-Cottarelli proposto da Calenda ma il ticket inverso Cottarelli-Moratti, perché come candidata vicepresidente è capace «di andare a prendere consensi di centrodestra», mentre come presidente fa scappare gli elettori di sinistra. Gori sembra convinto che gli elettori, di sinistra e di destra, abbocchino alle finte di corpo.

Parlano come allenatori, decidono chi schierare sulla fascia destra, chi è più adatto all’interdizione, se si vince con il pressing, con il catenaccio o con il possesso, convinti che gli elettori si appassioneranno al loro delirio. Il segretario del Pd lombardo Vinicio Peluffo festeggia ( «è un ottimo segnale») che «in un’assemblea a Bergamo sono arrivati due ragazzi di 16 anni che hanno voluto iscriversi al Pd». Il suo stupore è degno del protagonista di Dissipatio H.G. di Guido Morselli (1977), storia di un uomo che un giorno si sveglia e scopre di essere l’unico abitante rimasto nella città di Crisopoli. Peluffo propone, per vincere, di «ripensarsi, rigenerarsi e rilanciarsi».

Parla così anche l’allenatore della Lazio Maurizio Sarri: «Per vincere le partite facciamo tanta fatica. Serve una crescita dal punto di vista della continuità e della mentalità, e deve essere anche accompagnata da un pizzico di umiltà in più». L’ex segretario del Pd Zingaretti è stato più pessimista: «Ho fatto di tutto per tirare questa forza politica fuori dal coma in cui era crollata».

Dare la scossa

«Vinceremo con gli occhi di tigre», proclama Enrico Letta all’inizio dell’ultima sfortunata campagna elettorale. Il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, scettico sugli occhi di tigre, sente il bisogno di «dare la scossa» allo spogliatoio, convinto che bisogna «correre per vincere, non per perdere bene». «Per vincere serve costanza», afferma l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri.

«Per vincere bisogna contare su tutto il protagonismo sociale», opina l’ex ministro Pd Giuseppe Provenzano. «La squadra va in campo per vincere ogni singola partita», assicura l’allenatore dell’Inter Simone Inzaghi. «Noi combatteremo per vincere nel Lazio», minaccia il governatore uscente Zingaretti, anche se non è credibile perché ride sempre. «Non siamo costruiti mentalmente per gestire, dobbiamo giocare al meglio per ottenere una vittoria», spiega l’allenatore del Milan Stefano Pioli. «Dobbiamo stare sulla palla», catechizza Andrea Orlando del Pd pensando a due anni e mezzo di possesso palla in vista delle regionali liguri del 2025.

È stato Matteo Renzi a promuovere la metafora agonistica da occasionale artificio retorico a sostanza della politica. Da sindaco di Firenze spiegò così la necessità di rottamare tutti i leader del Pd: «Se il centrosinistra avesse un Guardiola vincerebbe a mani basse. Ma uno come lui non c’è». Pep Guardiola, sia detto per i politologi ignoranti, era allora l’allenatore del Barcellona che vinceva tutto. Naturalmente il Guardiola era lui, il Bomba, che caricava lo spogliatoio con frasi come «Dobbiamo avere fame di vincere!».

In molti hanno creduto che la politica fosse quella roba: «Renzi è l’unico leader che in questo momento può portarci a vincere le elezioni. Smettiamola di immaginare che il Pd non abbia bisogno di un leader, perché questa idea non ha niente a che fare con la politica moderna». Sull’onda di questo inno alla modernità Paolo Gentiloni è diventato in soli cinque anni ministro degli Esteri, presidente del Consiglio e commissario europeo. Anche il rottamando Antonio Bassolino, ex governatore della Campania, ci ha provato col Guardiola («Non sono renziano, ma si fa politica per vincere, e se abbiamo una carta per battere il centrodestra in campo aperto dobbiamo giocarla») ma senza portare a casa i tre punti, anzi le tre poltrone.

Che cosa si vince?

Vivere la politica come uno sport è malattia antica. Il primo leader a ritenersi un campione è stato Massimo D’Alema. «Dobbiamo decidere chi è il primo pilota», diceva quando guidava lui, «se mi convincessi che il primo pilota per vincere è un altro gli aprirei lo sportello della macchina».

Poi aprì lo sportello a Romano Prodi, ma come un allenatore che dava fiducia a un giovane inesperto: «Spero che sia uno forte, perché serve uno cattivo per battere Berlusconi». Eppure è stato proprio D’Alema, anni dopo, a vedere l’abisso in cui si stava cacciando la sinistra italiana. Renzi lo voleva rottamare con questo argomento: «Chiedere un passo indietro a chi come lui è in parlamento da anni è il minimo per vincere». E la volpe del Tavoliere fece la domanda a cui nessuno ha mai risposto: «Renzi si presenta come quello che ci fa vincere, ma che cosa ci fa vincere?».  

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