- Prolungare oltre la fase di emergenza la pretesa di unanimismo di forze politiche ridotte a “cartello” non appare come il segnale di una politica più matura o “pragmatica”, ma come un’accelerazione postdemocratica.
- Una strada che conduce all’ulteriore indebolimento della capacità di cittadini e cittadine di influenzare le decisioni, minando l’uguaglianza e la sovranità popolare.
- È in reazione a questo stato di fatto che nell’ultimo ventennio si è prodotta l’esplosione populista. Le strozzature nei processi di partecipazione democratica non conducono (solo) all’acquiescenza passiva ma (anche) alla ricerca di risposte semplici e non-mediate al malcontento.
C’è chi Mario Draghi lo vorrebbe al Colle con un mandato forte, un “semi presidenzialismo de facto”, come quello evocato da Giancarlo Giorgetti. C’è chi invece lo vorrebbe a Palazzo Chigi, non solo fino al 2023 ma anche “oltre il 2023”. Se le due opzioni differiscono nella forma, non si distinguono granché nella sostanza, che è la conclamata sfiducia dei gruppi dirigenti verso la politica dei partiti, unita al desiderio di prescindere quanto possibile dagli orientamenti dell’elettorato.
Tutto ciò, s’intende, è nell’interesse del “paese” – un’entità indifferenziata, priva dell’articolazione plurale della cittadinanza – il cui bene solo le élite politiche ed economiche sono in grado di comprendere, e che comunque coincide con l’agenda Draghi.
Per le anime più moderate del centrosinistra, mettere questa agenda al riparo dalle turbolenze elettorali è anche la via maestra per sbarrare la strada ai populismi di destra, a cui i sondaggi continuano ad assegnare una maggioranza relativa di consensi. Un nobile sforzo, si potrebbe pensare, dato il rapporto ambiguo e problematico che queste forze intrattengono la democrazia costituzionale.
Tuttavia, il ragionamento perde di vista un’evidenza fondamentale, ovvero che quella auspicata è una torsione oligarchica della politica democratica, un approfondimento del solco che separa rappresentanti ed elettori, e che è precisamente in questa circostanza che nasce e si alimenta lo spirito anti-establishment dei populismi.
Colin Crouch ha chiamato «postdemocrazia» la parabola discendente in cui, mentre gli assetti democratici sopravvivono nella forma, l’energia reale del sistema politico è sempre più nelle mani di un’élite ristretta di politici e rappresentanti del mondo imprenditoriale, che condiziona l’agenda degli organi decisionali.
In questa prospettiva, prolungare oltre la fase di emergenza la pretesa di unanimismo di forze politiche ridotte a “cartello” non appare come il segnale di una politica più matura o “pragmatica”, ma come un’accelerazione postdemocratica.
Una strada che conduce all’ulteriore indebolimento della capacità di cittadini e cittadine di influenzare le decisioni, minando l’uguaglianza e la sovranità popolare.
Se la partecipazione elettorale si riduce alla scelta tra alternative indifferenti – o, come scrive la filosofa Chantal Mouffe, alla scelta «tra Pepsi e Coca-Cola» – non può sorprendere che il corollario sia una stanchezza diffusa, che si esprime anche attraverso l’astensione dalle urne.
È in reazione a questo stato di fatto che nell’ultimo ventennio si è prodotta l’esplosione populista. Le strozzature nei processi di partecipazione democratica non conducono (solo) all’acquiescenza passiva ma (anche) alla ricerca di risposte semplici e non-mediate al malcontento. Un malcontento che, lo si voglia vedere o no, cresce anche oggi nel nostro paese, insieme ai numeri sulla povertà e sul lavoro non garantito, all’assottigliarsi del reddito e delle pensioni.
La postdemocrazia non è un rimedio al populismo, ma il terreno di coltura di vecchie e nuove forze illiberali e antidemocratiche.
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