Questa è una crisi profonda, diversa dalle altre, attivata da una causa apparentemente esogena: il virus della Sars-Covid 19. Ma l’organizzazione della vita in questa fase della storia – l’ambiente, il clima, l’affollamento urbano, la congestione migratoria, la rapidità degli spostamenti – spiegano almeno in parte la crisi pandemica. È una crisi che mostra l’urgenza di reazioni immediate nel breve periodo e di cambiamenti strutturali per il lungo. In questa prospettiva è importante notare la discontinuità economica rispetto al passato, che sancisce la fine dell’egemonia del paradigma economico liberista durata 50 anni.

Una crisi diversa

Debellato il virus, la ripresa economica potrà essere più rapida che nelle crisi passate. Soprattutto se i governi attueranno le misure in cantiere. Gli Stati Uniti hanno già approvato un piano per la ripresa di 1.900 miliardi di dollari che, se completato con le tranche in attesa dell’approvazione del Congresso, sfiorerà i 6.000 miliardi, il 27 per cento del Pil americano. È uguagliato nelle proporzioni solo da Singapore (27 per cento del Pil); l’Australia ha stanziato il 18 per cento, la Cina il 10 per cento.

In Europa l’intervento diretto è più contenuto, ma è completato da misure di alleviamento del debito e da una politica monetaria fortemente espansiva. Le misure di sostegno europee impongono indirizzi di politica economica stringenti sulle modalità di spesa dei paesi membri, volti a modificare la traiettoria della crescita verso un percorso rispettoso dell’ambiente e socialmente meno iniquo.

Il blocco delle attività ha colpito la parte “reale” dell’economia. Le banche centrali, a partire dalla Bce, hanno attivato rapidamente una politica del credito che ha sollevato imprese e governi dall’onere debitorio. Una politica monetaria sapiente, che insieme all’aggiustamento fiscale degli Stati, consentirà una ripresa economica più veloce che nel 2008/9: questa volta le imprese non devono attraversare un ribilanciamento dei portafogli prima di poter riattivare una politica di investimenti di lungo periodo, per le modalità della crisi e la tempestività e la qualità degli interventi pubblici.

La politica di sostegno alla ripresa non si è concentrata sui sistemi finanziari con il salvataggio costoso delle banche, che fu percepito come iniquo e inefficace (circa 3.000 miliardi di dollari) nel 2008/9. Al contrario, l’intervento pubblico si è rivolto dapprima ai cittadini colpiti dalla crisi e poi alle imprese.

Rischio inflazione?

 Joe Biden e Janet Yellen (AP Photo/Andrew Harnik)

Gli economisti, soprattutto americani, si interrogano sulla possibilità che questi interventi massicci generino inflazione, ma la preoccupazione sembra più dettata dalla reazione politica dei Repubblicani, tesi ad arginare gli interventi di Biden, che non basata su fondamenti economici.

Le banche centrali danno un quadro rassicurante: Jerome Powell, dalla Federal Reserve, prevede valori di poco superiori al 2 per cento ma solo temporaneamente; così la Banca centrale europea, mentre la Banca Mondiale non pensa che l’inflazione supererà il 2 per cento, nonostante l’incertezza accresca la volatilità dei prezzi.

Non sono inflazionistiche misure che non si limitano a immettere liquidità nel sistema, ma sono dirette a finanziare infrastrutture, industria e occupazione in un’economia devastata, che negli Stati Uniti si prevede cresca tra il 4 e il 6 per cento nel 2021.

Il piano della Cina include investimenti in nuove infrastrutture digitali di frontiera, dal 5G, all’intelligenza artificiale, al settore dell’internet delle cose e una crescita del Pil superiore al 6 per cento nel 2021. L’Europa spinge sulla ripresa attraverso l’economia verde, la ricerca di nuovi materiali meno inquinanti (l’idrogeno verde, tra gli altri), la ricerca farmacologica, il rafforzamento della sanità; prefigura una crescita di poco sopra il 3per cento. La politica industriale torna al centro delle politiche pubbliche, dopo 50 anni di esclusione ideologica devastante.

Al quadro di un intervento pubblico efficace manca però un pilastro: la ricostruzione di una pubblica amministrazione tecnica, competente e responsabile, come quella rafforzata negli Stati Uniti negli anni Sessanta dal presidente Lyndon Johnson. O come o quella che si fece conoscere in Italia all’inizio del secolo scorso, in grado di istruire con competenza le scelte politiche dei governi. Modelli che nulla hanno a che vedere con la “p.a.” disegnata nel new public management dall’ideologia liberista.

Liberisti addio

L’indebolimento del pilastro istituzionale che ha accompagnato la politica liberista logorando le competenze e il ruolo della pubblica amministrazione ha avuto conseguenze sociali disastrose: si leggono nell’acuirsi delle diseguaglianze, nella mancanza di protezione dei cittadini e nelle carenze dell’offerta di servizi essenziali; e si ritrovano nella reazione politica di larghe fasce della popolazione che non ha tratto beneficio dalla rivoluzione tecnologica di fine secolo, ma sono state colpite nel lavoro e nella carenza di servizi.

Nel frattempo, un piccolo nucleo di imprenditori dei settori innovativi ha accumulato ricchezze immense dalle rendite di monopolio, spesso ottenute proprio in virtù di monopoli legali. La crisi ha evidenziato che questa situazione esige una correzione. Dagli Stati Uniti Janet Yellen mostra fermezza in questi giorni, proponendo al G20 una fiscalità globale sulle multinazionali di quei settori. L’Europa potrà condividerne l’impostazione e l’Italia dovrà sostenerla.

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