Il mese di gennaio è stato piuttosto brutale per i mercati azionari. Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha decisamente virato verso una postura monetaria aggressiva per piegare non solo l’inflazione corrente ma le aspettative.

Jay Powell e i suoi colleghi non escludono un aumento dei tassi di mezzo punto percentuale a marzo. Un tempo mosse di questa dimensione erano del tutto normali ma lustri di interventi straordinari delle banche centrali li hanno resi una rarità.

I mercati sono preoccupati per l’eventualità che la Fed possa, già da marzo, ridurre il proprio bilancio vendendo sul mercato i titoli del Tesoro e le obbligazioni ipotecarie anziché limitarsi a non rinnovare i titoli che scadono. Nel 2018 questa policy creò problemi ai mercati e a Donald Trump, che mise Powell nel mirino delle sue reprimende.

La pressione inflazionistica sta spingendo verso la povertà un numero crescente di americani, con buona pace della narrazione sul recupero salariale dei lavoratori più poveri. Le nuove misure di stimolo di Biden sono impantanate nel campo Democratico, col braccio di ferro tra progressisti e conservatori fiscali. L’assegno di 300 dollari mensili per i figli minori, che Biden voleva prorogare col nuovo pacchetto, è scaduto nel peggior momento possibile. La pandemia ci ha messo il carico, con le quarantene e le infezioni soprattutto per i lavoratori costretti a prestare la propria opera in presenza.

Questa inflazione appare di difficile gestione, essendo il combinato disposto di persistenti criticità dal lato dell’offerta e di stimoli di domanda. Se la stretta monetaria servirà a contenere la seconda, la presenza di colli di bottiglia, anche geopolitici, nelle catene di fornitura rischia di rendere persistenti le pressioni sui prezzi e fuorviare l’azione della banca centrale, inducendola a sbagliare per eccesso di stretta monetaria.

Difficile sfuggire all’impressione che la Fed abbia commesso un serio errore che rischia di minarne la credibilità futura.

Whatever it takes

La gravità della crisi pandemica ha portato a elaborare la teoria del “debito buono”, una sorta di whatever it takes della politica fiscale. Non è un caso che a lanciare in modo “programmatico” questo precetto sia stato Mario Draghi. A tutti è apparso subito evidente che non sarebbe stato possibile agire diversamente.

A pochi è invece apparso chiaro che la portata degli stimoli sarebbe rapidamente andata fuori controllo per esigenze di gestione del consenso politico e delle constituency dei partiti. Il risultato pratico è stato un diluvio di sostegni, deficit e debito, indiscriminati. Chi si sarebbe preso la responsabilità politica di dire a una categoria “no, tu no?”.

Lo stesso Draghi avrebbe poi direttamente sperimentato, dalla guida del governo italiano, lo iato tra la teoria del debito buono perché selettivo e di quello buono solo perché debito.

La capacità di intervenire chirurgicamente con sussidi mirati si è rivelata una perfetta fallacia, allo stesso modo in cui i beneficiari formali dei sostegni erano differenti da quelli sostanziali.

Quante aziende hanno preso prestiti pandemici che sono andati a ristrutturare la loro esposizione bancaria, beneficiando quindi in ultima istanza i creditori?

Soprattutto, siamo un po’ tutti rimasti vittime del miraggio di tassi indefinitamente bassi, quindi in grado di reggere alti carichi di deficit. Sembrava che le leggi economiche fossero state sospese o riscritte. Un moto perpetuo in cui gli stati fanno deficit e le banche centrali li accomodano.

E forse sarebbe andata davvero così, se non si fossero messi di traverso i colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento, che hanno incontrato il vigore della domanda spinta dai sussidi.

Ora ci troviamo con un’inflazione aggressiva, anche da questo lato dell’Atlantico malgrado in molti ci affanniamo a motivare razionalmente il contrario, con conseguente distruzione della domanda e nuove richieste di deficit aggiuntivo a sostegno. Un altro tipo di moto perpetuo, decisamente vizioso.

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