Una delle leggi non scritte dei social network è la seguente: più un post ha interazioni, più, con il passare delle ore, il contenuto dei commenti degenera, fino a toccare un punto di non ritorno in cui semplicemente si parla di qualcosa che c'entra pochissimo con il contenuto del post stesso. Ne ho avuto una dimostrazione lampante quando, un paio di giorni fa, ho pubblicato su Facebook poche righe su Simone Ruzzi, in arte Cicalone.

La mia tesi, a rileggerla ora, era banalotta, niente di particolarmente originale: ho scritto che dei delinquenti devono occuparsene le forze dell'ordine, non gli youtuber. E che è pericoloso, prima di tutto per Cicalone, insistere con il suo metodo, che prevede la messa alla berlina di ladruncoli e ladruncole. Apriti cielo. Quel che è successo nelle ore successive è stato sconvolgente.

Leoni da tastiera (?)

Per comprendere la portata della marea di insulti e minacce che mi ha travolto, è fondamentale sottolineare che la mia presenza sui social è marginale: di mestiere scrivo, da 18 anni, ma non ho un'esposizione sul web tale per cui possa essere definita “normale” la mole di bile contenuta in centinaia di messaggi pubblici e privati. Ho smesso di contarli superata quota 1.200 in circa ventiquattro ore e mentre scrivo ne stanno arrivando ancora ovunque: su Facebook, su Messenger, su Instagram e persino su WhatsApp.

Ho iniziato a leggerli con pazienza, quasi con curiosità antropologica: volevo capire quali pulsioni si attivassero in persone che non mi conoscono e che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno nemmeno letto per intero ciò che avevo scritto. Dopo poche ore ho capito che non aveva alcun senso proseguire.

La progressione dei commenti seguiva una logica precisa: prima le accuse di buonismo, poi gli insulti sulla professione (giornalista professionista? Una colpa), subito dopo l’attribuzione di appartenenze politiche o religiose buttate lì a casaccio - tra chi mi definiva «comunistello», chi «servo del potere», chi mi dava dell’«ebreo», chi mi accusava di essere «a favore degli zingari», fino a definirmi direttamente uno «zingaro».

Alcuni messaggi, per la loro crudezza, sono difficili da parafrasare: c’è chi scrive che «ti devono menare anche a te» e chi augura di essere «pestato malamente». Ho ricevuto, anche in privato, auguri di violenza verso miei familiari, battute sessuali esplicite, insulti sul mio fisico, inviti al silenzio o alla scomparsa («devi stare muto»), e una quantità impressionante di variazioni sul tema della disumanizzazione: «sporco venduto», «ladro di ossigeno», «feccia», «idiota», «imbecille», «pdiota», «zecca rossa di m***a».

Gioco al massacro

Contro chi esprime posizioni come la mia, c’è chi propone «pogrom», chi parla di «escrementi rom sfuggiti ai campi tedeschi», chi associa «rom ed ebrei» come categorie indistinte, chi mi scrive che «ti meriti gli zingari con quello che hai detto».

Si tratta di un gioco al massacro che, non lo nascondo, mi ha turbato. E mi rendo conto che al momento le mie emozioni sono scontate quanto lo è il contenuto del post da cui è nato tutto: ho paura, non tanto dell’eventualità che anche soltanto uno dei leoni da tastiera passi dalle parole ai fatti (ma chissà), quanto dell’esplosione di violenza a cui sono stato esposto all’improvviso.

In tutto questo, Facebook non ha alzato un dito. Sulla mia pagina sono ancora presenti centinaia di messaggi razzisti e intimidatori, le minacce di morte. È tutto ancora lì, come fosse la cosa più normale del mondo.

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