Dopo aver, volutamente, fatto posare un po’ di polvere, credo sia opportuno tornare brevemente sulla polemica che ha investito il mio amico Vito Mancuso, ultima di una lunga fila di analoghi inciampi di autori e autrici illustri, anche recenti.

Per prima cosa, vorrei chiarire che non si tratta di distribuire patenti di antisemitismo o antigiudaismo a nessuno. Tanto più a Mancuso, persona di rara integrità, come io stesso posso testimoniare in modo diretto. E persona che per questa integrità ha subito attacchi che non ho difficoltà a definire violenti da parte di ambienti conservatori. Solo in malafede si potrebbe attribuirgli una personale inclinazione antisemita, come se fosse animato da un odio anti ebraico.

Il dibattito

Se ho contribuito a dare quest’impressione, evidentemente ho sbagliato parole e di questo chiedo scusa. Tanto più che, come dice Mancuso stesso nella replica all’intervista di Rav Di Segni affidata a La Stampa, se tutti sono antisemiti alla fine nessuno è antisemita. Ciò che, invece, si vorrebbe favorire è una presa di coscienza di antichi pregiudizi che ereditiamo dalla cultura in cui siamo cresciuti. Esattamente come ereditiamo la lingua che parliamo.

Espressioni come «sacrificio di Isacco», anche se, pure questo bisogna sottolinearlo, fuggite dal sen di un’intervista dedicata a tutt’altro, o, ancor più, rappresentazioni del Dio biblico come padrone che richiede cieca e assoluta obbedienza fino alla richiesta di «scannare il proprio figlio» provengono dal repertorio del più classico antigiudaismo cristiano, che così tanti danni ha creato nella storia. Per tutti, non solo per gli ebrei, come opportunamente ricordano spesso le autorità ebraiche.

La ricerca del capro espiatorio è, del resto, il momento iniziale delle svolte autoritarie. Ciò che, dunque, si auspica è un lavoro di igiene linguistica così come avvenuto con le parole «negro», «frocio», «zingaro» (qui il lavoro da fare è ancora molto), un tempo utilizzate senza alcuna ritrosia nell’industria dell’intrattenimento, dello spettacolo (vogliamo parlare dei B-movies anni ’80?) e, persino, della cultura alta.

Uno sforzo

Perché non si può fare uno stesso sforzo nei confronti dell’ebraismo? È noto che le parole si portino dietro una visione di mondo che finisce col sedimentarsi in un immaginario collettivo. Sinceramente, si sperava che questi fossero dati acquisiti almeno fra addetti ai lavori, ma, visto il ricorrere di simili espressioni finanche in quotidiani con direttori ebrei che simili linguaggi pregiudiziali sono abituati a riconoscerli fin dalla nascita, significa che ci eravamo sbagliati e che le nostre erano pie illusioni coltivate in ambienti privilegiati come il Sae, il Monastero di Camaldoli e altri luoghi simbolo del dialogo ebraico-cristiano.

Auspichiamo, dunque, che non si reagisca alle critiche con quel fastidio epidermico che porta a pensare quanto si offendano facilmente questi ebrei o quanto siano suscettibili.

Anche questa, riedizione dell’antico stereotipo che li descrive come popolo che richiede per sé privilegi che non concede ad altri, a cui, magari, nega persino i diritti fondamentali. Anche su queste pagine mi è capitato di dover rispondere alla solita domanda «E i palestinesi allora?», partendo da articoli dedicati a tutt’altri argomenti. Si risponde perché, appunto, abituati ai soliti pregiudizi. Tornando all’integrità di partenza, la Torah la indica con due termini diversi, entrambi riferiti a Giacobbe: tam e shalem. Il primo esprime l’integrità di chi è tutto d’un pezzo, ma che non concede nulla all’altro. Il secondo condivide la radice con shalom, che è sì pace, ma nel senso di ricomposizione.

Dovremo anche noi trovare toni e parole per favorire questa seconda opzione, cercando sempre di distinguere i pregiudizi ereditati inconsapevolmente da quelli agiti e rivendicati in piena consapevolezza. Solo trovando le parole giuste, Giacobbe-Israele è riuscito a riabbracciare il fratello Esaù, nell’esegesi ebraica immagine della cristianità.

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