La storia (vera) l’abbiamo sentita quasi tutti almeno una volta. I ricconi della Silicon Valley, i principali responsabili del nostro vivere attaccati a uno schermo, di solito mandano i figli in quelle scuole private molto costose dove si usano le antiche lavagne nere con i gessi, si fanno i lavoretti manuali e si impara seguendo metodi basati sull’assenza di telefoni, di tablet, di internet, di molta tecnologia e di stress competitivo.

Insomma: i ricconi della Silicon Valley fanno di tutto per tenere i figli lontani dal mondo che loro stessi hanno creato e nel quale ci hanno inseriti (non del tutto contro la nostra volontà, sia chiaro, anzi, ci siamo dimostrati cavie felici, anche se alcuni aspetti non sono stati per noi subito chiari, e a tratti mi sa che siamo stati fregati).

Inefficienza artificiale

La questione dell’educazione dei figli di questi signori e signore è interessante: le persone che più di chiunque altro conoscono le conseguenze di una vita attaccata agli schermi fanno di tutto per evitare che la loro prole sia esposta a quello che evidentemente considerano un male da loro stessi creato.

E per quanto i ricconi della Silicon Valley, pur essendo certamente intelligenti, abbiano un po’ la tendenza a comportarsi come un gregge di pecore (come quando hanno fatto fallire una banca perché appunto sono corsi in massa a portare via i soldi), è difficile pensare che per i loro figli non cerchino davvero di fare il meglio e magari ci riescano. Poche persone sono imbevute di futuro come i ricconi della Silicon Valley. E i figli, per una persona, sono il massimo del futuro.

Sono anche andata a vedere il sito di una di queste scuole californiane. Come tutte le scuole costose, frequentate da persone molto benestanti che però vogliono trasmettere l’idea di possedere valori e moralità profonde, la sensazione è di trovarsi di fronte a esperimenti sociali. Ad artifici. A comunità sintetiche.

All’utopia di ricreare, per pochi, un mondo comunque divorziato dalla realtà. Un mondo scolastico fatto di processi di apprendimento lenti e indiretti, di flâneur, di fallimento accolto con dolcezza, di ginocchia sbucciate artisticamente. In breve: di inefficienza. Anzi no: di inefficienza artificiale.

La nostra nostalgia

L’espressione “inefficienza artificiale” mi è venuta in mente proprio adesso, mentre scrivo. Chissà se funziona. Per noi ex bambini cresciuti in un mondo senza internet tutta questa inefficienza era accessibile semplicemente vivendo. Ci annoiavamo e dunque giocavamo con – non so – le foglie e i rametti del giardino condominiale.

«Non combinavamo niente». O insomma svolgevamo attività non molto produttive e non sempre appassionanti, attività che sicuramente facevano riposare il cervello (ma poi riposava davvero?) e ci davano la possibilità di respirare e crescere (davvero?).

Oggi l’inefficienza (che poi è anche la noia) va ricreata in laboratorio, per così dire, con fatica, energia e investimento. Perché altrimenti in un secondo ti attacchi a internet e tutto riprende alla massima velocità. E invece no. Ricostruisci con cura la possibilità di compiere gesti antichi in una scuola di legno. È tutto molto nostalgico.

Spazi di vita

Un filosofo (e matematico) disse che la civiltà avanza quando estende il numero di cose che possiamo fare senza pensare. Questo concetto se inizi a pensarci è straordinario: cose che possiamo fare senza pensare. In quest’ottica, la civiltà avanza dunque con la tecnologia.

Perciò se abbiamo internet possiamo fare una montagna di cose che prima facevamo pensando o comunque investendo energie intellettuali, e che adesso facciamo semplicemente aprendo una app e usandola per pochi istanti.

Ma aspetta. Allora non è vero che il vecchio mondo in cui giocavamo con i rametti faceva riposare il cervello. Non è vero che bisogna creare l’inefficienza artificiale. È il nuovo mondo creato dai ricconi della Silicon Valley a far riposare il cervello, estendendo il numero di cose che possiamo “fare” senza “pensare”. Abbiamo molto tempo in più, con un clic facciamo la spesa e così via.

Questi spazi di vita che si creano non vengono però da noi usati con vera gioia, ma vengono immediatamente divorati dalla tecnologia stessa, che ci dà qualcosa e un secondo dopo già ci chiede l’attenzione in cambio, dandoci in pasto migliaia di stimoli non certo messi in ordine gerarchico di utilità o benessere per noi.

La soluzione forse è fermarsi un attimo prima. Ricavare gli spazi di vita grazie alla tecnologia e poi fuggire per i prati senza voltare le spalle. Il problema è che non è facile coltivare una simile consapevolezza.

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