Il rapporto sullo Stato della Scienza del Clima compilato dal Gruppo 1 dell’IPCC (il Panel scientifico delle Nazioni unite sul Cambiamento Climatico) è già quasi scomparso dai media italiani, tranne che per poche eccezioni, tra cui il quotidiano che state leggendo. Il clima è un tema ormai saldamente presente nell’agenda politica, ma questo non assicura affatto che il dibattito sia corretto, né che i compromessi sul tavolo tengano conto della realtà scientifica, nonché delle esigenze sociali e ambientali.

La situazione è davvero molto preoccupante: chi ha letto anche i rapporti dell’IPCC precedenti sa bene che il cambiamento sta andando molto veloce, dimostrando peraltro la correttezza dei modelli e anche il fatto che i rapporti del Panel ONU erano e sono molto prudenti e conservativi, non certo azzardati come qualcuno ha voluto far credere per anni. Già, quel qualcuno che ha anche foraggiato i più improbabili “scienziati” (di solito non climatologi) per giustificare l’esistenza di un dibattito scientifico sulla responsabilità umana sul cambiamento climatico.

Inequivocabile

Oggi il rapporto IPCC rompe ogni indugio e dichiara il consenso pressoché totale: è inequivocabile che l'influenza umana abbia riscaldato l'atmosfera, l'oceano e la terra, e questo sta provocando cambiamenti senza precedenti del clima del pianeta. E allora il tentativo dilatorio, perché di questo si tratta, trova nuove forme: dal criminale “non c’è più niente da fare, tanto vale continuare come abbiamo sempre fatto” – l’IPCC ha detto esattamente il contrario, possiamo contenere il riscaldamento globale a 1,5°C se attueremo forti, repentine e costanti riduzioni di gas serra-  al più sottile, ma non meno colpevole, tentativo di buttarla in geopolitica.

Da un po’ di giorni vediamo neo-esperti affannarsi a dimostrare che bisogna prendersela con la Cina (e talvolta aggiungono anche l’India) perché sarebbero i maggiori responsabili dell’inquinamento mondiale. La realtà che attualmente la Cina è il maggior emettitore mondiale, seguita dagli USA (che hanno un quinto della popolazione cinese), dall’India e dalla Russia.

Dal punto di vista di tutte le emissioni storiche di CO2 riversate nell’atmosfera, gli Stati Uniti sono il Paese maggiormente responsabile con oltre 410 miliardi di tonnellate di CO2, seguiti dalla Cina con circa 220 miliardi. Un vero successo dell’Accordo di Parigi è stato quello di aver sì riconosciuto le responsabilità storiche, ma anche la necessità di fare tutti la propria parte nella lotta al cambiamento climatico, secondo le proprie capacità.

I Paesi industrializzati hanno provocato il riscaldamento globale – le emissioni di CO2 permangono in atmosfera per secoli, a volte millenni -  attuando un modello di sviluppo che non ha messo in conto i costi ambientali, ora che se ne sono accorti non possono chiedere agli altri paesi di bloccare il proprio sviluppo, ma devono agire da battistrada per una prosperità non più fondata sulle emissioni di gas serra e la distruzione dell’ambiente e della natura. In altre parole, devono  guidare con l’esempio. 

D’altro canto, ogni paese si impegna a contribuire secondo le proprie capacità, il che assegna un ruolo esplicito alle economie emergenti.  Chi oggi riapre la questione lo fa per aggravare le già alte tensioni internazionali. Noi invece vorremmo che la questione venisse rivoltata, i  giochi di potere e di supremazia devono essere messi da parte quando si tratta della scommessa per la sopravvivenza della civilizzazione umana.

Vantaggio competitivo

Certo, nell’ambito della strada che garantisce l’azzeramento delle emissioni ognuno può legittimamente cercare il proprio vantaggio competitivo, ma non è su quello che si dovrebbe sempre più essere giudicati, bensì sull’apporto alla causa comune. Forse, nell’ambito della Convenzione sul Clima, si potrebbero studiare modi per premiare chi contribuisce di più e in modo più efficace, non solo per punire chi non rispetta gli accordi (le “punizioni” verso i Paesi industrializzati che non hanno mantenuto le promesse sono state ben poche, ahimè). Nei recenti negoziati G20 a Napoli si è visto che il giochetto di chi vuole riaprire lo scontro geopolitico porta a scenari già visti a Copenaghen nel 2009, rischia di compattare tutti i paesi in via di sviluppo contro i paesi Sviluppati.

Sarebbe disastroso se il Summit dei Leader G20 (a presidenza italiana) e la COP26 di Glasgow arrivassero con simili scenari. A perderci, e su questo vorrei essere chiara, sarebbero tutti: perché è proprio nei Paesi occidentali che lo scontento verso la mancanza di un’azione efficace sul clima investe maggiormente la politica. Lo fa in modo indiretto, è poco rappresentata nel dibattito, ma ha certamente un peso crescente che non può essere certo arginato da dinamiche antiscientifiche che investono solo e sempre una minoranza.

Cogliere la sfida del rapporto IPCC, insomma, vuol dire rivoltare il copione visto negli ultimi 30 anni, premiare chi fa bene e sanzionare l’inazione, sia tra gli Stati che nei singoli Paesi. E qui, permettetemi di sottolineare l’assoluta inadeguatezza della nostra strumentazione, innanzi tutto dal punto di vista della governance. Come abbiamo proposto, occorre una Legge sul Clima  un quadro giuridico che faccia delle emissioni la cartina di tornasole di ogni provvedimento, come per la copertura finanziaria.

Su questo chiederemo a tutti i gruppo parlamentari di sperimentare una nuova e migliore capacità di fare squadra, per difendere la vita e la sicurezza dei cittadini dal caos climatico – gli incendi, la siccità, le ondate di calore e le alluvioni già ci funestano- per guidare l’abbandono dei combustibili fossili e la transizione del modello industriale ed economico verso una nuova prosperità.

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