Vedremo se il barlume di speranza di una attenuazione delle ostilità con lo scambio dei prigionieri prenderà spinta oppure si spegnerà subito, riattivando un conflitto che non conosce limiti alla sua violenza. Atterrisce che i bombardamenti israeliani non risparmino nemmeno gli ospedali: il 21 novembre sono morti tre medici nell’abbattimento del terzo e quarto piano dell’ospedale di Al Awda, e due di questi erano operatori di Medici Senza Frontiere; due giorni prima, il 19 novembre, ne era morto un altro nell’attacco contro un convoglio di Msf. I bombardamenti si abbattono indiscriminatamente su tutto.

Gaza nord è un campo di macerie. Il noto e reputato sito investigativo Bellingcat, utilizzando immagini dal satellite, cifra tra il 50 e il 60% la percentuale di case distrutte o gravemente danneggiate. La furia vendicativa di Israele si dispiega in tutta la sua potenza, ignorando le sollecitazioni degli Stati Uniti, dell’Ue e di altre organizzazioni internazionali ad evitare quanto possibile morti di civili.

La psicoanalista Merav Roth, parlando delle ferite nell’animo inflitte ai sopravvissuti e a tutti gli israeliani dal 7 ottobre, in un intervento su Haaretz ha avvertito del «pericolo che il comportamento omicida, la barbarie e il razzismo [messi in atto da Hamas] diventino contagiosi e avvelenino le nostre anime; [..] bisogna trovare la luce in fondo alle nostre anime [..] per scegliere il bene contro il male».

Invece il governo israeliano sta trascinando il suo paese verso un baratro di inciviltà. E questo incrina la strenua difesa che i democratici occidentali hanno sempre fatto di Israele, perché lo si riconosceva come un proprio rappresentante, se non addirittura un modello. Negli ultimi mesi le reazioni della società civile allo strisciante golpe istituzionale progettato da Netanyahu hanno suscitato grande ammirazione tra i democratici di tutto il mondo. Ora tutto questo si sta sgretolando a causa del fanatismo religioso e del protofascismo della destra estrema.

Israele va salvato dalla cupio dissolvi in cui è stato trascinato dal progrom efferato di Hamas. Aleggia troppo da vicino lo spettro di Masada. Il diritto all’autodifesa, giustamente invocato, deve essere proporzionato. Invece, le scene di una città distrutta, delle colonne di sfollati con le loro poche masserizie, delle irruzioni negli ospedali, oltre alle migliaia di innocenti morti sotto le bombe, vanno in senso contrario.

E quando un ministro auspica il lancio di una bomba atomica su Gaza – arma di cui Israele, contravvenendo a tutte le norme internazionali, non ha mai dischiarato ufficialmente il possesso – emerge il sospetto che la soluzione preferita sia una tabula rasa dei palestinesi. Eppure Israele ha l’occasione - ex malo bonum secondo il detto agostiniano - per definire una volta per tutte il suo futuro e la sua sicurezza. Che non sarà imposta né con le armi, né con la sopraffazione. Ma con uno sforzo, enorme, di dialogo tra leader che da una parte e dall’altra vogliano chiudere la storica frattura tra palestinesi ed israeliani.

E qui il punto dolente non riguarda solo e tanto Gaza, bensì la Cisgiordania. I settecentomila coloni là istallati, sulla cui protervia e arroganza, quando non deborda in violenza gratuita, la sinistra liberal israeliana mantiene una vigile, ammirevole, attenzione, lasceranno mai le terre palestinesi, con un replay di quanto accaduto a Gaza quindici anni fa, moltiplicato per 10? Oppure, detto per pura ipotesi, saranno disposti a vivere sotto uno stato palestinese indipendente e sovrano? Questa è la vera domanda.

Se non c’è risposta a questo, Israele non sarà mai al sicuro. Noi europei, però, non possiamo lavarci mani: se pensiamo che la pace in Medio Oriente ci riguardi, siamo disposti a mandare, con tutti i rischi connessi, un contingente di molte migliaia di soldati a fare peace-enforcing e peace-keeping? O ci limitiamo alle belle parole?

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