Ormai è diventato un meme: in questo 2021 l’Italia vince tutto, dalle competizioni sportive al premio Nobel. Coincidenza? Se la narrazione fa presa, è perché sembra raccontare un felice contrappasso: un paese sempre in crisi, duramente colpito dalla pandemia, mostra di essere capace di risollevarsi.

A questo punto la domanda sorge spontanea: cosa succederebbe se credessimo di più in noi stessi, se investissimo maggiori risorse – nel calcio, nella pallavolo, nel nuoto, nella scherma, nella fisica, nella musica, nel polo femminile, nella pasticceria e pure nei parrucchieri che hanno vinto il loro campionato europeo, insomma se investissimo di più in qualsiasi cosa? La risposta è semplice, meccanica: non c’è dubbio che vinceremmo più competizioni. Ma questo risolverebbe davvero i nostri problemi? .

Abbiamo vinto tanto, è vero. E questo ci ha ridato speranza, benissimo. Ma questa sovrarappresentazione di eccellenze potrebbe proprio essere il nostro problema, il sintomo di uno squilibrio doloroso: perché il paese non è in grado di assorbirle e valorizzarle, e per una medaglia d’oro in ogni categoria ci sono centinaia di semi-eccellenti costretti a ripiegare o emigrare.

Il Nobel a Giorgio Parisi costituisce una doppia vittoria perché si tratta di un fisico italiano che lavora in un laboratorio italiano; ma è l’albero che nasconde la foresta dei tanti laureati che proseguono la loro carriera all’estero, nei paesi che si sono specializzati nei settori corrispondenti: nord Europa per le scienze dure, Regno Unito per l’alta finanza, Francia per l’industria culturale...

Questo è il prezzo da pagare per un paese che sceglie di essere un vivaio di eccellenze pur sapendo di non avere né un mercato né un’infrastruttura industriale capace di assorbirle tutte quante. Perché il capitale umano è soltanto uno dei fattori di produzione necessario a generare ricchezza, e se non incontra la propria anima gemella rimane solitario e infertile.

Si fa presto a dire che allora bisogna sviluppare quel mercato e quelle infrastrutture: se bastasse volerlo, si saprebbe. Si tratta semmai di chiedersi quale futuro vogliamo (realisticamente) per il paese e concentrare gli sforzi in quella direzione.

Vantarsi di avere il miglior fisico, la miglior squadra di calcio e la migliore rock band del mondo non serve a granché. Nella giungla della divisione internazionale del lavoro, l’Italia si sta specializzando nella produzione di capitale umano da esportazione. C’è solo il problema che nessuno remunera il paese per questa merce preziosa, nessuno ripaga gli investimenti fatti attraverso il sistema educativo per formare chi, lavorando all’estero, all’estero anche fiscalmente risiede. Al grande orgoglio non corrisponde un eguale vantaggio.

A forza di formare cervelli che fuggono, l’Italia si sta trasformando in un popolo della diaspora come l’antico Israele. E forse un giorno si dirà, come già per gli ebrei: ma perché ci sono così tanti italiani tra gli intellettuali, gli artisti, gli eccellenti?

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