Combattere le disuguaglianze è l’obiettivo storico della sinistra. È il motivo per cui essa esiste. E spesso, lottare contro la disuguaglianza ha voluto dire anche lottare per la libertà: un ideale di «emancipazione» degli oppressi, a partire dalla dignità del lavoro.

Sia il liberalismo che il socialismo sono nati, in rapida successione se guardiamo ai tempi lunghi della storia, per questo scopo. Quando sono rimasti insieme, hanno contribuito a creare le moderne società del benessere di cui ancora godiamo i frutti.

Quando si sono separati, inseguendo il primo una libertà e un’uguaglianza formali l’altro l’uguaglianza sostanziale, e hanno entrambi smarrito se stessi. Forse è ora che tornino a ricongiungersi, per ridare significato alla parola sinistra.

È a partire dall’Umanesimo, ma poi soprattutto grazie all’Illuminismo, che in Occidente si è progressivamente fatta strada l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge: è l’uguaglianza di diritto, che ha portato fra l’altro all’abolizione (almeno formale) della servitù della gleba e della schiavitù. È la filosofia politica del liberalismo, a partire da John Locke.

Non apprezzeremo mai abbastanza l’importanza del «secolo dei Lumi», cioè di quella fase della storia occidentale culminata nelle prime dichiarazioni dei diritti dell’uomo alla fine del Settecento, se non partiamo da questo dato di fatto.

Quei pensatori e quegli uomini politici hanno messo in discussione l’idea della disuguaglianza: una fra le più radicate nella storia e nella cultura umana.

La contraddizione liberale 

Nell’Ottocento, però, quando decolla lo sviluppo economico moderno sulle ali della rivoluzione industriale, le disuguaglianze reali sono rimaste e anzi, per molti aspetti, sono aumentate. Quelle fra i paesi, innanzitutto: fra quanti si industrializzavano e quanti rimanevano imprigionati nelle catene del vecchio mondo, e spesso venivano colonizzati. E le disuguaglianze all’interno dei paesi, anche di quelli più avanzati. A quell’epoca, chiamata del «liberalismo classico», non esisteva lo stato sociale, e il ruolo dell’intervento pubblico in economia era minimo.

Il pensiero liberale veniva così minato alla radice, nella sua stessa credibilità, dalla grande contraddizione etica che esso stesso aveva generato. Mentre predicava l’uguaglianza di diritto, praticava una netta e spesso rigida disuguaglianza di fatto, spesso ammantata di giustificazioni (il merito, il darwinismo sociale, la missione civilizzatrice degli europei) che i suoi critici, sia di destra che di sinistra (da opposte premesse), consideravano ipocrite. Nell’Ottocento i liberali hanno lasciato cadere la bandiera dell’uguaglianza, restando ancorati a una sua definizione meramente formale spesso vuota; lasciandola nelle mani del solo pensiero socialista.

Dopo le guerra tutto cambia

Le società liberali che a inizio Novecento sono sprofondate nella Prima guerra mondiale erano più diseguali delle nostre. Erano anche le più prospere che mai si fossero viste nella storia umana, fino ad allora: ma sono piombate nella barbarie.

La Grande guerra, e la Rivoluzione d’ottobre che ne è seguita, poi ancora la crisi del 1929 e quindi la Seconda guerra mondiale, insomma quei trenta anni drammatici che vanno dal 1914 al 1945, hanno però costretto il pensiero liberale a confrontarsi fino in fondo con il pensiero democratico (di matrice laica e cristiana), poi anche con quello socialista (pure in evoluzione: interprete di una classe operaia che aveva raggiunto un livello di benessere impensabile fino ad allora, abbandonava il massimalismo accettando di giocare con le regole della democrazia liberale).

I due filoni originati dall’Illuminismo, separatisi nell’Ottocento (lo spartiacque sono i moti del 1848, almeno in Europa), un secolo dopo si sono ritrovati. E si sono ritrovati lì dove si erano lasciati: sulle dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Quella delle Nazioni Unite, nel 1948, non a caso include pienamente i diritti sociali (lavoro, sanità, istruzione, casa); e la Costituzione italiana, dello stesso anno, è un altro esempio di questo nuovo incontro.

L’intervento pubblico 

FILE - In this April 13, 1943 black-and-white file photo, President Franklin Delano Roosevelt speaks in Washington. Sen. Elizabeth Warren’s plan to pay for “Medicare for All” without raising middle-class taxes departs from the shared responsibility the U.S. traditionally has required for bedrock programs. That’s different from the “social insurance” idea of Democratic presidents like Franklin D. Roosevelt, Harry Truman and Lyndon Baines Johnson. They relied on broad-based taxes packaged as “contributions,” fostering a sense of ownership. (AP Photo/Robert Clover, File)

Sul piano economico, il terreno su cui si realizza l’incontro è l’intervento pubblico. A partire dagli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt, negli anni Trenta, che infatti era un liberale interventista. A partire da liberali progressisti come William Beveridge, in Inghilterra, che durante la Seconda guerra mondiale per primi hanno creato lo stato sociale ad ambizione universalista; a partire dalle idee di John Maynard Keynes, anche lui liberale. O sull’altro versante, a partire dai socialdemocratici scandinavi.

Dopo la seconda guerra mondiale, questo modello si è diffuso con pieno successo anche negli altri paesi dell’Europa occidentale e un po’ in tutto il mondo avanzato. Ha contribuito a rendere questa metà del pianeta più attrattiva di quella comunista, salvando così le «società aperte».

I cosiddetti neo-liberali, che criticavano l’intervento pubblico e Keynes già negli anni Trenta, temevano che la presenza nello stato nell’economia avrebbe inevitabilmente aperto la strada alla dittatura (così ad esempio Hayek, The Road to Serfdom, 1944). Credevano cioè che il liberalismo politico, vale a dire la democrazia liberale, fosse inseparabile dal liberismo economico. Si sbagliavano.

Le socialdemocrazie europee sono state perfettamente in grado di mantenere i diritti individuali e le libertà civili (e hanno garantito anche una notevole prosperità), li hanno anzi per molti versi estesi e rafforzati.

Di più, è diventato sempre più chiaro che dove l’intervento pubblico interviene con efficacia per correggere le disuguaglianze, a valle o anche a monte della produzione di ricchezza, la democrazia è ancora più solida. La previsione dei neo-liberali come Hayek si è quindi rilevata non solo sbagliata, alla prova dei fatti. Ma fuorviante.

Eppure quelle idee sono tornate in auge a partire dagli anni Settanta. Formano la base del pensiero neo-liberale. Su quei presupposti, in Occidente negli ultimi decenni lo stato sociale è stato ridimensionato, le disuguaglianze sono aumentate e alla fine anche la democrazia liberale si è indebolita.

Da un po’ di anni abbiamo scoperto che in Occidente anche le nostre libertà civili sono in pericolo (anche qui, con ovvie differenze da paese a paese). Nel frattempo, il pensiero liberale vive un altro paradosso. Nel campo della riflessione etica, infatti, la nozione di diritti umani è stata sempre più estesa: non più solo i diritti civili di prima generazione (la vita, la sicurezza, la proprietà), ma i diritti sociali, quelli civili di seconda generazione (la libertà di amare, fra tutti), i diritti ambientali (che sono i diritti alla vita delle generazioni future). Ma mentre, sul piano teorico, tutto questo veniva riconosciuto e discusso dai pensatori del liberalismo progressista (da Amartya Sen a Martha Nussbaum), su quello pratico tutto ciò veniva messo nell’ombra dal pensiero neo-liberale, che poneva al centro la sola libertà economica (sulla carta, peraltro).

Di fatto, la bandiera di una politica che portasse alla piena realizzazione della persona umana, necessariamente in relazione con gli altri e con l’ambiente, veniva nuovamente abbandonata dal pensiero liberale (e spesso anche da una parte della sinistra riformista, che fra gli anni Novanta e Duemila si è ispirata per diversi aspetti all’ideologia neo-liberale).

President Joe Biden tours a pumping room at the Sewerage & Water Board's Carrollton water plant, Thursday, May 6, 2021, in New Orleans, as New Orleans Mayor LaToya Cantrell listens at right. (AP Photo/Alex Brandon)

L’amministrazione Biden, oggi, sembra finalmente recuperare il liberalismo che fu di Roosevelt, il liberalismo dove le libertà civili e politiche si incontrano con i diritti sociali e oggi, anche, ambientali. E dove l’intervento pubblico si affianca al mercato, cooperano insieme per un maggiore benessere sociale. Non è una sfida facile, perché si tratta anche di cambiare gli assetti del sistema economico internazionale, a cominciare dalla tassazione delle multinazionali e dai paradisi fiscali, come Biden sembra aver compreso bene; o per quanto riguarda, ad esempio, la possibilità dei paesi poveri di accedere al più presto ai vaccini. Ma se questa sfida riuscirà, saprà tornare a ispirare e riempire di senso la sinistra riformista di tutto il mondo.

Affinché sia così, però, è necessario che già oggi la sinistra europea affianchi Biden, e anzi magari lo incalzi sulle proposte: sia nelle politiche interne, dalla transizione energetica alla lotta alle disuguaglianze, sia nella ridefinizione degli assetti internazionali. L’Europa e l’America possono fare ancora grandi cose insieme, e questo è il momento.

© Riproduzione riservata