Candidarsi, ovunque e comunque. Per i leader della destra non è una novità, soprattutto alle elezioni europee. Silvio Berlusconi si è candidato al parlamento europeo tre volte da presidente del Consiglio (1994, 2004, 2009), lasciando subito dopo il seggio per incompatibilità, e una volta da capo dell’opposizione, nel 1999.

Ogni volta ha raccolto milioni di preferenze personali (il record nel 1999: 2.995.886, 50mila in più rispetto alle europee del 1994, quando era entrato in politica da pochi mesi) e ha trainato la sua lista al successo. Tornò a farlo poi nel 2019, dopo aver scontato lo stop imposto dalla condanna e dalla legge Severino.

Giorgia Meloni è in scia con questa tradizione, che comprende anche Matteo Salvini. Capolista nel 2019 da vicepremier e ministro dell’Interno, portò la Lega al 34 per cento. A destra l’imbroglio, votare un nome e eleggerne un altro, la truffa democratica di cui ha parlato Romano Prodi, è già compiuta da trent’anni, e anche con un certo successo. Sono tutti partiti personali. La Lega porta addirittura nel nome l’obiettivo ormai perduto, Salvini premier. Fratelli d’Italia ha svolto l’ultimo congresso nel 2017.

Leadership e partito

Molto più complicata la storia a sinistra. Perché nonostante la rituale affermazione del pluralismo, del “noi che viene prima dell’io”, dell’unico partito senza padroni che non accetta l’uomo o la donna forte, la verità è che la discussione sulla candidatura alle europee della segretaria Elly Schlein, al di là del suo contingente aspetto tattico, svela ancora una volta il nodo non sciolto: il rapporto tra leadership e corpaccione del partito che è la pietra su cui prima o poi tutti i segretari del Pd sono inciampati, finendo nel dirupo.

Nell’ispirazione iniziale del Pd, e nello statuto originario, c’è una chiara scelta presidenziale, il modello americano: solo questa può giustificare le primarie aperte e estese a tutti gli elettori, quelle vinte da Schlein quasi un anno fa, che hanno smentito il voto della prima fase, quella degli iscritti.

Il paradosso è che il Pd è un partito presidenziale, anche se non personale, dove gli oligarchi del partito hanno la facoltà di destituire il leader di turno in qualsiasi momento. Un tempo gli oligarchi erano solo i capicorrente centrali, oggi tra loro ci sono i veri padroni del partito sui territori: i presidenti di regione, i sindaci e i sindachini che in queste settimane si affacciano sulla scena per dissentire dal partito nazionale (sull’abolizione del reato di abuso di ufficio), per scegliere o non scegliere i loro successori nelle città, per autocandidarsi ad andare in Europa, ma anche a restare dove sono, se passa il terzo mandato. Un’agitazione non meno dannosa delle pluricandidature.

È la costituzione materiale che regge da sempre il Pd e che lo avvita in una spirale mefitica. Di fronte a questa contraddizione tra leader forti perché legittimati dalle primarie, ma debolissimi nei sinedri del Nazareno e dei territori, i leader del passato hanno reagito in due modi.

Il primo è mettere il loro progetto nelle mani di chi quel progetto lo avversava: alle europee del 2004 gli elettori della lista unitaria dell’Ulivo, fortemente voluta da Prodi con la resistenza dei Ds e della Margherita, si ritrovarono nella immensa circoscrizione sud come capolista il rivale storico Massimo D’Alema. Il Professore, a fine mandato in Europa, scelse di non candidarsi. Coerente, ma il suo progetto uscì indebolito dalla sua assenza.

Il secondo è, all’opposto, estremizzare la leadership per costruire un partito a immagine e somiglianza. È stato Matteo Renzi a trasformare il Pd in PdR, Partito di Renzi, le cinque capolista calate dall’alto alle europee del 2014 (quelle del 40 per cento) ne furono una testimonianza.

C’è una terza via tra quella del leader divorato dal partito e quella del partito divorato dal leader? Ci sarebbe, è in fondo semplice, perfino banale, infatti è l’unica che non è mai stata perseguita. Un partito che è come una squadra, dove il capitano o la capitana non resta in panchina ma gioca, non in solitudine, ma accanto agli altri componenti, considerando se la partita vale il campionato.

Il guaio di questo tempo è che anche nel presunto centrosinistra sono tutti partiti personali: Renzi, Carlo Calenda, Giuseppe Conte che, senza candidarsi alle europee, guida il partito più personalizzato di tutti. E che la squadra del Pd non c’è, tra le vecchie glorie, gli abatini e le nuove leve della segreteria, da cui non sono emerse rilevanti personalità politiche.

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