L’ipocrisia di cui questo libro parla è la civility (urbanità nei comportamenti e nel linguaggio). Non è il salvagente al quale le persone si aggrappano in condizioni di dominio e arbitrio; non è il segno dell’assenza di libertà individuale; non è nascondimento e umiliante doppiezza; non è manipolazione. L’ipocrisia come civility non appartiene alle società illiberali. Designa invece una società pacificata nei diritti e che riconosce la diversità delle persone, che non chiede a nessuno di essere un eroe per vivere in tranquillità. In questa accezione, l’ipocrisia è segno e riconoscimento dell’umana imperfezione e vulnerabilità.

Questa interpretazione presuppone che si abbiano chiari i limiti dell’ipocrisia, che si riconosca che il confine che la separa dalla menzogna, dalla duplicità o dalla manipolazione è poroso e labile. Richiede, soprattutto, che siamo noi singoli a pattugliare i confini tra menzogna e ipocrisia, che spetti a noi decidere che cosa dire o non dire, non a chi ci governa.

Dalla sua non assolutezza dipende l’aiuto che dà alla virtù della socialità. In questa azione permanente di controllo e di autocontrollo si forma la personalità, tanto che si potrebbe dire che l’educazione che ha successo è quella che riesce a integrare le persone nella società civile senza renderle passive o (estremamente) conformiste. Conformismo temperato. Queste sono alcune delle condizioni per intendere l’ipocrisia come arte del comportamento, una guida all’azione attenta al contesto e con lo scopo di rispettarlo, non sovvertirlo. Tuttavia, «rispetto» non vuol dire cieca accettazione. Un’arte conservatrice, dunque. Ma fino a qual punto?

La guerra all’ipocrisia

La trasgressione, la rottura degli ormeggi, il rovesciamento delle buone maniere sono un segno del fallimento dell’ipocrisia, lo scuotimento dell’ordinaria normalità che essa procura e facilita. Il tiro delle uova marce ai signori e alle signore che si recavano al Teatro alla Scala la sera di Sant’Ambrogio del 1968 per la tradizionale inaugurazione della stagione lirica fu un gesto di rottura che denunciava una violazione ostentata e pubblica del codice delle buone maniere; quel gesto valse a formalizzare il movimento giovanile di contestazione, peraltro iniziato già nella primavera.

Emulando la «guerra all’ipocrisia» dichiarata nel Settecento agli opportunisti della corte di Versailles, Mario Capanna e i suoi compagni scagliavano uova contro «impellicciate dame e damerini» che mettevano in piazza abiti il cui costo era più elevato dello stipendio annuo di un operaio, senza pudore. Senza pudore. L’affronto, l’arroganza, la beffa di dirsi uguali per legge e fare teatro di sfrontata diseguaglianza: la doppiezza era così evidente, e così poco celata e celabile, da perdere la propria funzione di civile articolazione delle differenze e dei dissensi.

L’ipocrisia riesce a essere un vizio prestato alla virtù della socialità fino a quando la sua distinzione dalla menzogna è credibile, e per essere credibile non è sufficiente che sia creduta soggettivamente. Le relazioni materiali e sociali e le relazioni regolate dal diritto e dalla morale devono essere in sintonia, pur se mai perfettamente coincidenti, perché l’ipocrisia sia tollerabile. Diversamente, anche un’inutile finzione può diventare un insopportabile affronto; allora, l’ipocrisia sarà come un fuoco incendiario invece che una strategia che facilita la convivenza civile.

Ricorrere all’ipocrisia è come riconoscere la nostra fallibilità. Cercare di trovare le parole che nell’esprimere liberamente le nostre idee non feriscano l’altro non è molte volte un dire autentico; ma siamo certi che quel che pensiamo sia sempre meritevole di diventare una massima per tutti, che abbia una validità universale? La regola del politicamente corretto è come una confessione di dubbio sulla bontà delle nostre opinioni. È peculiare alle società liberali. Come ha scritto Jon Elster, è parte di ciò che costituisce il mondo civile perché ci impedisce di esprimere le emozioni che abbiamo, non perché ci impone con la forza di esprimere le emozioni che non abbiamo. Questa è l’ipocrisia virtuosa. Come controprova possiamo citare i regimi totalitari, che impediscono con la forza l’espressione delle emozioni e delle idee dei sudditi, e quindi anche le loro scelte di adottare comportamenti ipocriti.

La pratica linguistica bacchettata come politically correct è il galateo del nostro tempo. Ha valore di civility se è limitata e non sistemica. L’uso del linguaggio è il suo ’aspetto più importante, un allenamento a pensare alle parole come fossero azioni, i cui esiti possono danneggiare le persone. Il danno alla persona è più facile da perpetrare se la si incasella in un gruppo. Al razzista non interessa fare alcuno sforzo di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi.

L’ignoranza militante

La pigrizia mentale e la faciloneria giustificatoria sono la linfa dell’ignoranza militante; rendono il razzismo non solo un pregiudizio ma soprattutto un codice di riconoscimento che può avere effetti dirompenti. Infatti, i razzisti si riconoscono e si attraggono; quando si accorgono di essere circondati da persone che condividono il loro modo di pensare si sentono nel giusto, escono allo scoperto.

La reiterazione è per loro una prova di veridicità. Il razzismo genera emulazione e non è mai «un fenomeno isolato» perché si ha il coraggio di rivelarsi razzisti in pubblico soltanto se si è certi di poter contare sulla simpatia di chi ci sta intorno. Il razzista pensa di non peccare di ipocrisia (e infatti rivendica di essere sincero e autentico) ma il suo comportamento è radicalmente ipocrita perché massimamente conformista: il razzista che si scoprisse solo in una moltitudine di non razzisti molto probabilmente tacerebbe. Ritenere che un episodio di razzismo sia «un fenomeno isolato» significa non comprenderne davvero la portata e rendere un cattivo servizio alla civility.

L’idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il motore originario del politically correct) riposa sull’osservazione ben documentata che la crescita esponenziale di comportamenti intolleranti è indotta dal consenso (anche passivo o tacito) da parte degli altri. Se avverto di essere mal giudicata quando uso un linguaggio offensivo in pubblico mi guarderò bene dall’usarlo. Ma se al contrario so che la larga parte dei miei concittadini la pensa come me, mi sentirò autorizzata a tradurre in parole esplicite le mie idee razziste.

E nel farlo, parlerò senza peli sulla lingua, senza mordermi la lingua: senza ipocrisia. L’autocensura che liquidiamo come politically correct presuppone una società nella quale il razzismo c’è, ma è sentito come un problema, non come un’opinione da preservare o sostenere.

Poiché i diritti hanno i piedi nella società, per diventare strumenti di rispetto della persona devono poter contare su sforzi civili e politici. La concretezza di vita delle persone – il loro essere «diverse» – non può essere ignorata, soprattutto quando la maggioranza si arroga il privilegio di identificare e definire i «valori» e i significati della «comunità nazionale» entro i quali concepire i diritti e approvare o condannare moralmente l’una o l’altra «diversità».

Torniamo dunque da dove eravamo partiti nell’introduzione: la purezza delle nostre convinzioni viene prima della civility? Siamo disposti ad ammettere che l’intransigenza delle nostre credenze (soprattutto quando sono cementate in una maggioranza politica e ideologica) non debba venire prima della buona relazione con gli altri?

L’ipocrisia ha a che fare con una pratica comportamentale che è predisposta a immetterci nella strada delle relazioni di riconoscimento, non solo di rispetto. Ma non è ancora esplicito riconoscimento. L’ipocrisia come civility è propedeutica a una più completa etica e pratica del rispetto. Ci allena al riconoscimento senza riserve dell’umanità concreta che è in ciascuno/a come persone autonome, vulnerabili e fallibili quali siamo.


Questo brano è un estratto dal libro L’ipocrisia virtuosa di Nadia Urbinati. In libreria da venerdì 13 ottobre

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