“Speak softly”, suggeriva Theodore Roosevelt. Parlate dolcemente, aggiungeva, ma solo dopo esservi muniti di un “bastone nodoso” a cui affidare il comando. A Giorgia Meloni si vorrebbe consigliare di non adottare il secondo comandamento di quel presidente americano di più di un secolo fa. Ma possibilmente di dare invece ascolto al primo, evitando quei toni così sopra le righe a cui s’è trovata a far ricorso più volte – troppe volte – in questi giorni.

La presidente tende ad alzare il volume per una sorta di atavica affezione agli anni della militanza, quando per uscire dalla cornice minoritaria occorreva farsi sentire a prezzo di molte esagerazioni. E poi, probabilmente, tende ad alzarlo anche per richiamare all’ordine una coalizione che da un po’ di giorni sembra attraversata da una conflittualità che si va facendo insidiosa.

Ella si vanta di non essere “paludata”. E però l’effetto di tutte queste parole pronunciate in modi così stentorei, e così inutilmente volitivi, è quello di dar l’idea più di una debolezza che non di una forte convinzione. Quasi che l’alzare la voce fosse il segno di una difficoltà. Molto probabilmente perché di una difficoltà si tratta.

L’arte della mediazione

Certo, la politica è conflitto e neppure un attempato democristiano come me si illude che ogni controversia possa sciogliersi magicamente affidandosi ogni volta al dio della mediazione. Ed è evidente che le diversità che attraversano la coalizione al comando, pur (forse) meno divisive di quelle dell’altra metà, sono tali da implicare una quotidiana turbolenza anche da quelle parti. Basti pensare all’autonomia differenziata e all’idea di stato (e di paese) che quella “riforma” implica.

Si aggiunga che lo spirito del tempo insiste a reclamare leadership assertive, tutte d’un pezzo, chiamate ad esibire la propria forza in uno spettacolo gladiatorio che va in onda e in rete pressoché in ogni istante. Così, è ovvio che ogni leader si sente in diritto e in dovere di mostrare di non essere mai da meno. Con l’ovvia conseguenza di quel tira e molla che vediamo riproporsi di continuo tra sfide baldanzose fatte trapelare il giorno prima e finte dichiarazioni di amicizia e lealtà chiamate a smentirle il giorno dopo.            

Ma la politica, per l’appunto, è qualcosa di più profondo e forse anche di meno concitato. Essa è sempre un paziente lavoro di tessitura, che deve tener conto di tutte le insidie e cercare come può di scioglierle attraverso un esercizio di accorta calibratura. Ci può essere la volta che ci si scontra e ci si misura. Ma le altre volte occorre piuttosto cercare di intendersi. E intanto ascoltarsi e rispettarsi – almeno finché si resta sotto lo stesso tetto.

Il dovere di governare

Senza contare che tutte queste dispute avvengono sotto gli occhi della pubblica opinione. E mentre i fedelissimi reclamano gesti forti e apprezzano le posture più bellicose, la gran parte del paese da un lato appare infastidito dagli eccessi della conflittualità e dall’altro potrebbe imparare prima o poi che quasi sempre è il giocatore più calmo quello che ha in mano le carte migliori.

Per questo si vorrebbe consigliare alla presidente di dismettere quei toni inutilmente bellicosi. Sia quando si rivolgono esplicitamente ad avversari più deboli, sia quando prendono implicitamente di mira alleati più riottosi. E sia, soprattutto, quando vorrebbero galvanizzare una platea di sostenitori che avrebbe bisogno semmai di essere accompagnata lungo una rotta che non può più essere quella dei giorni caldi dell’opposizione a tutto.

Meloni governa. È un privilegio, ed è una responsabilità. Ne faccia buon uso. E consideri che non sarà il volume dei suoi discorsi né ad ampliare la sua popolarità né ad accrescere la sua forza. Semmai il contrario.       

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