«Non mi vedrete mai paludata. Inizierò a preoccuparmi quando non avrò più passione da mettere in quello che faccio». Giorgia Meloni alza i toni in parlamento, in aula risponde a tono a tutte le opposizioni, ma viene il sospetto che parli a nuora perché suocera intenda. O meglio, che si rivolga alla minoranza perché la Lega sappia chi comanda.

Non bastano infatti le standing ovation di Fratelli d’Italia alla Camera e i cori che scandiscono il nome della premier a nascondere l’assenza di Matteo Salvini e di tutti gli altri ministri leghisti sui banchi del governo durante le comunicazioni. Salvini era impegnato a incontrare il sindaco di Villa San Giovanni per parlare del ponte sullo stretto, e anche il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha preferito rimanere seduto al suo banco parlamentare. In mattinata, ha trovato il tempo di pubblicare una nota di solidarietà al presidente della provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti.

Problemi di comunicazione

Meloni viene da giorni complicati. Il suo capo ufficio stampa sta facendo le valigie: con Mario Sechi la scintilla non è mai scattata, ieri mattina sedeva solitario di fronte a un caffè nel dehors di uno dei bar che circondano il palazzo. Difficile prendere le telefonate nell’ufficio di palazzo Chigi, ormai. Non che il suo contributo abbia fatto la differenza nella comunicazione di Meloni degli ultimi mesi, rimasta in mano al clan che circonda la premier da quando Fratelli d’Italia era al tre per cento nei sondaggi. Ma da quando l’addio di Sechi è ufficiale, la presidente del Consiglio è tornata sempre più ai toni della sua campagna elettorale.

Il primo sfogo è arrivato lunedì sera, di fronte alla contestazione del segretario di Più Europa Riccardo Magi durante un evento sulla giornata mondiale contro la dipendenza dalle droghe. La reazione è stata più simile a un dibattito politico che alla dialettica con un esponente istituzionale. E anche ieri, Meloni è tornata a parlare di «gufi che preconizzavano instabilità» e di «cura che rischia di far peggio della malattia» riferendosi all’innalzamento dei tassi d’interesse prospettato dalla governatrice della Bce Christine Lagarde. Ma poi, sulla ratifica della riforma del Mes, Meloni ha proposto una soluzione «a pacchetto».

Una macchia di Rorschach in cui ciascuno dei partner di maggioranza può vedere quel che preferisce, perché la premier mette nello stesso calderone Mes, completamento dell’unione bancaria e riforma del patto di stabilità. Una soluzione, insomma, che lascia tutte le strade aperte rimandando una decisione su cui la Lega è pronta a fare le barricate.

Non è un caso che la provocazione del Carroccio sia andata avanti per tutto il giorno. Il numero due di Salvini, Andrea Crippa, è andato giù duro sulle due questioni più bollenti per la premier, il Mes e il caso Santanchè. Mentre in mattinata chiedeva polemicamente a Meloni di «dirci cosa fare», ricordando che «Meloni negli scorsi mesi ha detto le stesse cose di Salvini sul Mes», nel pomeriggio spiegava, parlando della ministra del Turismo, che «se si dovessero verificare i fatti e dovessero succedere delle evidenze per cui ci sono irregolarità o illeciti, è giusto che il ministro si prenda le sue responsabilità».

E poi, sempre tra le assenze della Lega, al Senato per la Lega è intervenuto – nell’unico momento in cui la presidente del Consiglio era fuori dall’aula – Claudio Borghi, una carriera fondata sulle polemiche contro l’euro e Bruxelles. A fine giornata, quando ormai il compromesso di giornata si è trovato, da Fratelli d’Italia spiegano che il governo non è appiattito su Bruxelles, assicurando che però l’Unione è «assolutamente rispettata». Insomma, «se la Lega si agita è perché nel gioco delle parti ha bisogno di visibilità, ma ad avere l’ultima parola è Meloni. Che vuole mostrarsi dialogante, non andare allo scontro».

Il rinvio è però un accordo accettabile anche per i salviniani più estremi. Certo, c’è chi parla già della sindrome di accerchiamento dei meloniani, che secondo i leghisti tendono a voler decidere troppo in autonomia. «Se non ci si chiarisce prima, è facile che capitino malintesi», dice un senatore del Carroccio, con una frase che sembra l’ennesimo avvertimento in una giornata costellata di segnali neanche troppo nascosti all’indirizzo della premier. Per adesso, però, tutto è perdonato. Almeno, fino alla prossima richiesta di approvazione del Mes.

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