Con la decisione della Banca Centrale Europea di alzare i tassi di interesse e porre fine all’acquisto dei titoli di stato si chiude una fase. Spesa pubblica in deficit e basso costo del denaro hanno anestetizzato i dolori provocati dalla pandemia, ovvero riduzione della crescita e allargamento delle disuguaglianze. I “farmaci” impiegati hanno alleviato i sintomi ma non potevano da soli aggredire le cause di fondo della nostra fragilità. Nel frattempo le sfide si sono aggravate con l’invasione dell’Ucraina. I mali originari sono soprattutto due, legati tra loro: la bassa crescita della produttività e una redistribuzione perversa. Nel senso che rispetto a altri paesi essa è meno efficiente (scarica costi maggiori sull’erario e sulle imprese) e meno efficace nel ridurre le disuguaglianze. Il welfare all’italiana non è solo costoso per le imprese, ma sottrae risorse che nelle democrazie avanzate vengono impiegate per politiche a sostegno dell’istruzione, del capitale umano e della ricerca e innovazione (e quindi degli alti salari).

Vecchi problemi

La svolta della Bce rende ora più difficile l’uso degli analgesici e ripropone l’urgenza di aggredire i nodi di fondo. Certo il Pnrr può aiutare. Ma il suo stesso esito appare legato alla capacità della politica di mettere in campo politiche efficaci. Qui si addensano le difficoltà principali.

Aggredire i mali di fondo significa infatti intraprendere politiche che hanno costi immediati di consenso, concentrati su alcuni gruppi sociali, in cambio di benefici diffusi e più distanti nel tempo. Poiché per il modo in cui è stato costruito il consenso in Italia le rendite sono molto estese (dalle pensioni al fisco), è difficile per le forze politiche non cavalcare la protesta degli interessi lesi.

Apparentemente, sembra allora più di buon senso il “ritorno alla politica” secondo lo schema della democrazia maggioritaria. Chi vince prende tutto e governa senza defatiganti mediazioni e poteri di veto. Ben venga il sindaco d’Italia si dice.

In realtà quella dell’“uomo solo al comando” è un’illusione, peraltro già sperimentata con Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Sono altre le condizioni che servono: la pazienza dell’inclusione, la capacità di favorire compromessi progressivi, di ricucire a livello delle élites le profonde fratture che attraversano il paese, di evitare la concorrenza demagogica per il consenso a breve.

Insomma, è lo schema della democrazia negoziale dell’Europa centro-settentrionale che ci servirebbe, basato sulla corresponsabilizzazione delle principali forze politiche e sociali. Guardando alla nostra storia, è lo schema di Giolitti e non quello di Crispi. Solo in tal modo un paese piccolo, privo di fonti di energia e di materie prime potrebbe usare la capacità di cooperazione interna come leva per far fronte alle sempre più minacciose sfide esterne.

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