Non serve una laurea in diritto costituzionale per sapere che i molti e ripetuti modi in cui il presidente Donald Trump ha incitato i suoi sostenitori ad andare all’assalto di Capitol Hill il 6 gennaio, senza peraltro tentare nemmeno una impossibile riparazione a parole dopo i fatti che tutti hanno visto, giustificano ampiamente il ricorso alla procedura d’impeachment che i padri fondatori hanno congegnato per togliere di mezzo un presidente indegno o criminale. Per capirlo bastano la logica e il buonsenso.

Lo sanno anche i repubblicani al Congresso che sono intervenuti nel dibattito per l’impeachment introdotto dai democratici alla Camera, e non solo i dissidenti guidati da Liz Cheney, che già nei giorni scorsi hanno dichiarato che voteranno per la destituzione: lo sa anche il leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, che per la prima volta ha ammesso pubblicamente che «il presidente è responsabile dell’attacco di mercoledì al Congresso da parte di un’orda di rivoltosi» e «avrebbe dovuto denunciarli quando ha visto ciò che si stava preparando».

È invece più complicato spiegare perché l’impeachment di un presidente intentato sette giorni prima della naturale scadenza del suo mandato, con un successore legittimato dal voto popolare e dal collegio elettorale, può essere l’unica via, nel reame delle opzioni possibili, in cui anche i repubblicani possono salvare quel poco che rimane del Grand Old Party.

Nei loro interventi i rappresentanti conservatori hanno offerto infinite variazioni sul tema dell’unità nazionale per argomentare contro il ricorso a un impeachment che necessita di procedure per le quali non c’è tempo e che divide il paese, proponendo invece una procedura interna, la censure, che inchioderebbe Trump alle sue responsabilità senza una destituzione a prova di Costituzione.

Altri hanno messo in guardia dall’”effetto martirio” che una cacciata produrrebbe nella parte più violenta dell’elettorato trumpiano, alienando un pezzo del popolo che ha già dimostrato di essere ostile al patto di fondo che regola la convivenza democratica.

Mettendo da parte il giudizio sulla buona fede delle dichiarazioni, si tratta di preoccupazioni ragionevoli, ed è perfino un segno di saggezza politica considerare se il rimedio a un male finisce per essere peggiore del male stesso.

Ma nelle circostanze estreme e inedite che l’America sta vivendo, il male politico peggiore è che il partito trasformato da Trump a sua immagine finisca in qualche modo per eludere uno showdown pubblico e che dunque non riesca a non fare i conti con sé stesso, lasciando che Trump e il trumpismo rimangano nella coscienza del movimento conservatore come un trauma irrisolto, un demone mai affrontato perché mai giudicato secondo le procedure che l’apparato costituzionale dispone per trattare un presidente criminale.

Ci sono ancora delle incognite sulle tappe della procedura e sul suo esito, ma se l’impeachment dovesse passare anche al Senato, con i voti dei repubblicani, è lecito pensare che ci saranno conseguenze negative, che le frange più estreme dell’elettorato trumpiano si radicalizzeranno ancora di più, infiammate dalla rabbia, ma almeno i rappresentanti di un partito che rappresenta circa la metà del paese saranno stati chiamati a fare i conti con un presidente che incita i suo accoliti all’insurrezione contro le camere dei rappresentanti del popolo.

Nessuna delle vie al momento praticabili è priva di rischi e di conseguenze negative sulla stabilità politica e sociale del paese, ma l’impeachment è la migliore delle soluzioni imperfette. Anche per i repubblicani.

 

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