Ho letto con interesse il pezzo di Enzo Risso  La polarizzazione sociale e il caro prezzi rendono l’Italia più povera e fragile. Proprio qualche giorno prima della pubblicazione dell’articolo citato, il 23 novembre, l’Istat emetteva nota sulla Redistribuzione del reddito in Italia.

Vi si legge che nel 2022 «si stima che l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia ridotto la disuguaglianza (misurata dall’Indice di Gini) da 30,4 per cento a 29,6 per cento, e il rischio di povertà dal 18,6 per cento al 16,8».

L’avrei considerata una notizia meravigliosa, degna del massimo risalto, eppure non una riga è uscita sui mezzi di comunicazione di qualsiasi tipo. Ma per chi frequenta i dati, non c’è alcuna sorpresa.

L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, nei mesi scorsi, ha offerto evidenze sul fatto che gli aiuti alle famiglie più fragili, come combinazione di aiuti mirati e generici, hanno quasi completamente compensato la popolazione del primo decile della distribuzione dei redditi dalla perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione. La disuguaglianza, dunque, non può che scendere.

Considerando la serie storica di lungo periodo dell’indice di Gini sulla disuguaglianza dei redditi individuali si scopre - sempre da dati Istat - che la concentrazione in Italia è stabile o decrescente (a seconda dei punti nel tempo che si scelgono per il confronto).

Questo dato contraddice clamorosamente la vulgata politico-mediatica del tutto va male. D’altra parte, sempre leggendo i dati ufficiali, si ha contezza di un forte incremento della povertà assoluta: da 1,6 milioni di individui nel 2006 a 5,6 milioni nel 2021 (con incidenza minore e decrescente proprio per la fascia fino ad oggi più protetta - chissà come mai - della popolazione, i pensionati, appunto).

Tutti più in basso

Ora mettendo a sistema trend e valori di disuguaglianza e povertà si ha effettivamente un disegno piuttosto preciso del profilo economico del paese negli ultimi venti anni (o quasi).

La concentrazione del reddito è costante, la povertà assoluta è crescente: cioè tutti, con le medesime distanze interpersonali, ci spostiamo verso minori redditi medi in termini reali, e una quota sempre maggiore della popolazione cade sotto la soglia della povertà assoluta (che possiamo considerare fissa in termini reali).

Però, ammettere questa realtà empirica è fastidioso e non conviene né ai mestatori nel torbido di professione né a larga parte della rappresentanza politica.

Insistere sulla disuguaglianza ha il vantaggio che la vittima reale o presunta tale se la può prendere con qualcun altro, evocando un vago legame causale: io mi sono impoverito perché tu ti sei arricchito. E si capisce che anche sotto il profilo della propaganda politica è più facile identificare bacini di consenso da sobillare contro qualcun altro, secondo le proprie constituency elettorali.

Ragionare sulla povertà assoluta, invece, non produce questi benefici politico-mediatici. Chiama in causa questioni noiose come la produttività, il ruolo degli investimenti, lo stato delle variabili di contesto e, infine, la crescita economica e il suo ruolo nell’emancipare la gente dai bisogni di base. Ma forse siamo già nel liberismo (selvaggio, ovviamente). E anche questo non va bene.

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