Una decina di anni fa, nel pieno della Parentopoli che stava squassando la giunta di Gianni Alemanno, un fedelissimo del sindaco ammise a labbra strette l’errore politico che gli ex fascisti stavano commettendo. «Forse diamo l’idea di essere affamati», disse l’allora amministratore delegato dell’Atac giustificando le (854) assunzioni all’Atac di ex terroristi neri, parenti, mogli e amici degli amici.

Un’ingordigia che in pochi mesi portò all’occupazione sistematica di ogni centimetro quadrato dell’amministrazione della capitale, e che di rimbalzo – tra scandali e inchieste – provocò il declino rapido di quell’esperienza politica.

Talmente nefasta che i cittadini di Roma non sono riusciti ancora a dimenticarla: da Ignazio Marino a Virginia Raggi e Roberto Gualtieri votano chiunque, ma non la destra. La triste parabola di Alemanno dovrebbe servire come monito a Giorgia Meloni.

Perché oggi l’abbuffata invereconda degli ex missini vincitori si sta replicando a livello nazionale, con un’arroganza e con stilemi assai simili a quelli dei predecessori romani. Anche l’origine pavloviana dell’avidità sembra la stessa: i Fratelli d’Italia che hanno conquistato Palazzo Chigi reagiscono con l’occupazione selvaggia all’esclusione coatta dai sistemi di potere, da cui sono stati tenuti ai margini per decenni.

Entrati nelle stanze dei bottoni, Meloni e i suoi paiono ora volere mandare via tutti quelli che c’erano dentro, forse per timore che qualcuno li possa nuovamente ricacciare fuori. Meloni nega che le sue decisioni egemoniche nascano da desideri di vendetta o rivalsa, e discetta di normale spoils system basato su “merito” e “capacità individuali”.

Ma in questo primo anno di governo di normale o meritorio nella sottomissione scientifica della Rai, dei dicasteri, dei poteri terzi e delle authority indipendenti c’è stato ben poco. Viale Mazzini è stata brutalizzata dalla lottizzazione con metodi mai visti prima.

Perfino Rai 3, casamatta della sinistra pura ai tempi di Berlusconi, è stata azzannata dai meloniani. I vertici dell’azienda pubblica hanno concepito una programmazione che ha un unico compito: non quello di fare servizio pubblico né quello di ottenere share, ma una propaganda costante che provi a mantenere alto il consenso del governo e della premier.

In questo quadro non sorprende che a un alto dirigente di Viale Mazzini scappi alla festa di FdI Atreju che lui non è solo un uomo azienda, ma parte integrante del partito di maggioranza relativa. L’estrema destra ha piazzato i suoi fedelissimi in ogni angolo dei ministeri, nei musei più importanti del paese (presto ci sarà una tornata di nomine decisive), alla Biennale, nelle società di stato, senza studiare la qualità del curriculum dei cooptati (la tragicomica vicenda del teatro Mercadante di Napoli è emblematica, così come l’ingresso del figlio di La Russa nel cda del Piccolo), ma solo il grado di fedeltà ai capi-partito.

Tema che presto si riproporrà per le nomine di due aziende fondamentali come Fs e Cdp, i cui vertici scadono tra pochi mesi. La fame però porta spesso a scelte miopi, che alla lunga rischiano di minare proprio quel consenso popolare a cui Meloni tiene più di ogni cosa.

Nominare sorella e cognato ai vertici del partito e dell’esecutivo è mossa aggressiva che forse può placare una smania di controllo nel breve, ma nel lungo porta inevitabilmente guai. Politici e giudiziari.

Il caso di Francesco Lollobrigida ne è un emblema, come quello dell’ex avvocato di Meloni, il sottosegretario Delmastro, o dell’amica Daniela Santanchè, promossa ministro nonostante inadeguatezza manifesta e conflitti di interessi macroscopici.

La fame atavica e l’insicurezza politica sviluppano poi sindromi da accerchiamento, che portano a moltiplicare nemici veri o presunti (dai magistrati all’Europa, dagli intellettuali alle lobby Lgbt+ a Mario Draghi), e a escludere dalla sala macchine chi è capace da sempre di muovere le leve.

Un modus operandi che ha due conseguenze. Mettere in posizioni di comando chi non conosce il manuale d’istruzioni e manda a sbattere la macchina, e tenere ai margini il deep state non conformato ma abituato da sempre a cogestire potere insieme a chi di volta in volta vince le elezioni, come avviene in qualsiasi democrazia funzionante. Chi ha troppa fame tende a lasciare agli altri le briciole. Ma è una strategia politica che – escluse le democrature – alla lunga non paga.

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