La Federal Reserve continua a essere più preoccupata per l’inflazione che per la crisi bancaria. O almeno questa è la prima, e non unica, chiave di lettura della scelta molto attesa di alzare di un altro quarto di punto i tassi di interesse negli Stati Uniti, che arrivano così al 5 per cento.

Il fallimento della Silicon Valley bank e di Signature bank, e la crisi di fiducia che ha investito il settore bancario americano non fermano il presidente Jay Powell e gli altri governatori della banca centrale.

La scelta era molto attesa, anche per una ragione di comunicazione: interrompere il ciclo di stretta monetaria mentre l’inflazione americana è ancora sopra il 6 per cento (e non sembra destinata a crollare presto) avrebbe dato un segnale di grande preoccupazione.

I mercati avrebbero interpretato la scelta come un doppio problema: incertezza nella determinazione a riportare l’inflazione sotto controllo e segnale che la Fed considera la crisi bancaria molto più grave di quello che dice a parole. Col risultato che sarebbe stata a rischio sia la stabilità economica (prezzi) che quella finanziaria (banche).

E così la Fed ha continuato come se niente fosse, con un piccolo aumento del costo del denaro e con molte precisazioni sul fatto che, senza mettere in discussione la lotta all’inflazione, è ben consapevole che le condizioni del settore finanziario sono delicate e che potrebbero richiedere altri interventi drastici, come la scelta di garantire anche tutti i depositi non assicurati a livello federale dal Fdic, cioè tutti quelli sopra i 250.000 dollari (che erano il 92,5 per cento del totale nella Silicon Valley bank, una quota non comune dovuta alla sua natura di banca del settore tecnologico).

Il contesto è sempre più complicato per i banchieri centrali e in particolare per la Fed.

L’inflazione resta un problema molto più preoccupante di quello che tanti economisti hanno sostenuto negli ultimi mesi: in Gran Bretagna a febbraio è stata al 10,4 per cento, un dato che ha smentito anche le previsioni della Bank of England, sul fronte Bce sia Fabio Panetta che Christine Lagarde hanno ribadito l’impegno a continuare con determinazione con le politiche restrittive necessarie a riportare i prezzi sotto controllo.

Il sistema fragile 

AP

Il problema della Fed è che rischia di far esplodere il sistema bancario americano. Secondo un recentissimo paper di Erica Jiang, Gregor Matvoz, Tomas Pikorski e Amit Seru, nei bilanci delle banche americane ci sono molti altri problemi del genere Silicon Valley bank: il rialzo dei tassi riduce il valore dei titoli obbligazionari a lungo termine, ma in molti casi questa riduzione non appare nei bilanci se il titolo è classificato come “held to maturity”, cioè se non è pronto per essere venduto ma ufficialmente la banca dichiara di volerlo tenere fino a scadenza.

Se però si presenta una crisi di liquidità, per esempio perché i depositanti provano a ritirare i risparmi e la banca è costretta a vendere, allora quello che conta è il valore di mercato del titolo che rende concreta la perdita.

Secondo gli autori dello studio, ci sono 2.000 miliardi di dollari di perdite potenziali nel settore bancario dovute alla combinazione tra regole contabili e aumento dei tassi.

Almeno il 10 per cento delle 4.800 banche americane hanno perdite potenziali non segnalate superiori a quelle della Silicon Valley bank (ma per fortuna non hanno altrettanti depositi sopra la soglia di garanzia che rischiano di fuoriuscire con la stessa rapidità).

La Federal Reserve ha condotto stress test che anche la Silicon valley bank ha passato a pieni voti perché simulavano le conseguenze di aumenti dei tassi di interesse al 2 per cento, mentre ora i tassi sono al 5 e probabilmente neppure la Fed stessa sa quante banche rischiano di saltare.

Powell ha fatto l’unica cosa che poteva fare, ma adesso dovrà gestirne le conseguenze.

© Riproduzione riservata