Sembra uno stillicidio comunicativo. Non trascorre giorno senza che qualcuno non contribuisca a ricordarci di quanto l’Italia di oggi sia diventata tracotante e pornografica. Non sono aggettivi scelti a caso.

Nella pornografia c’è una modalità di occuparsi dei corpi che consiste nel mercificarli, sfruttarli, umiliarli incessantemente. Anche in Italia, i corpi sono con sempre più evidenza tornati al centro dei fenomeni di sfruttamento e delle loro espressioni ricorrenti. Come non esiste ancora un salario minimo, così sembra non esistere più un “corpo minimo” la cui dignità possa essere posta al riparo dalla violenza.

La tracotanza è invece l’indizio di un programma politico: che non è solo quello di andare oltre i limiti del giusto (e del gusto), ma anche di teorizzarlo, progettarlo, rivendicarlo. Il che aggrava esponenzialmente i motivi di preoccupazione: non basta che la classe dirigente si mostri così, il vero rischio è che le politiche del governo siano mosse dalla tentazione di fare di questa volgarità la forma della nostra società.

La Russa è un pericolo in sé, ma in quanto presidente del Senato diventa una minaccia anche per me.

La trappola da evitare

Ma non è di qualche ennesimo esempio di questa tracotanza che voglio parlare, nonostante ce ne sia sempre uno nuovo all’ordine del giorno.

Vorrei piuttosto suggerire che, quando la misura è colma, bisogna anche stare attenti alle trappole. E in queste settimane – dinanzi a questo teatrino senza dignità – mi pare che la trappola fondamentale sia quella di ritenere che la situazione sia così mediocre da rendere addirittura inutile una discussione su quale debba essere la natura politica della sinistra – discussione che meritoriamente le pagine di questo giornale stanno ospitando.

Insomma, che la sinistra per rigenerarsi debba fondamentalmente muovere dall’indignazione non solo legittima ma necessaria nei confronti dei comportamenti esibiti.

In sintesi: che il ritorno della questione morale possa dare alla sinistra l’opportunità di trovare un’identità prioritaria mettendo da parte tutte le altre discussioni (e gli altri conflitti). Ma è proprio così?

A me parrebbe invece che il compito della sinistra – sia della sua classe dirigente sia degli intellettuali che orbitano nei dintorni – sia non solo quello di indignarsi, ma anche e soprattutto quello di riconoscere che questo lungo elenco contenuto negli ormai quotidiani cahiers de doléances nei confronti della destra (un elenco difficile da aggiornare per quanto è affollato: Santanché, Briatore, Sgarbi, La Russa, Sangiuliano, Salvini, per ultimo il giornalista che festeggia il compleanno di Hitler e scambia un’azienda pubblica per un film dei fratelli Vanzina) non contiene semplicemente dei comportamenti singolari, ma piuttosto un certo modo di intendere i rapporti di potere dentro la società.

Non è la questione morale ciò che mi preoccupa di più a scorrere l’elenco, ma la questione sociale.

Tutti i rapporti sociali sono ormai definiti dalla dismisura di potenti che non riconoscono alcun limite dinanzi a sé e al proprio potere e che danno per scontato che la società sia differenziata secondo un ordine diseguale e oppositivo: il maschile contro il femminile, l’evasore contro chi paga le tasse, il figlio del ricco contro il figlio del povero, l’imprenditrice contro i suoi lavoratori, coloro per i quali si può fare cultura senza prendersi la briga di leggere contro coloro che ancora spendono tempo e soldi per leggere. E si potrebbe continuare.

Il disegno della destra si svela così ben oltre le proprie mancanze morali: è quello di trasformare ogni strumento di riequilibrio sociale in strumento oppositivo.

La pedagogia sociale della destra

C’è una parola che viene usata nei nostri ambienti e che, bisogna ammetterlo, suona un po' troppo complicata. Ma questo è il caso in cui non solo la si deve usare, ma si può anche spiegare con molta semplicità: l’intersezionalità.

La trappola più grande in cui possiamo cadere in questi giorni è interpretare quanto sta accadendo con il semplice sguardo dell’indignazione singolare, senza accorgerci così che tutti gli episodi sono connessi da un certo uso sociale del potere.

Un potere il cui linguaggio e comportamento si ripete continuamente quasi a rendere irreversibili le differenziazioni sociali.

Da questo punto di vista, le parole di Briatore dedicate al proprio figlio finiscono per svolgere addirittura la funzione di un vero e proprio apologo morale, svelandoci la pedagogia sociale della destra. Il destino del figlio sarebbe infatti quello di fare il cameriere per qualche anno prima di fare il capo.

Il massimo che ormai la destra è disposta a concedere è l’egualitarismo elemosinato e ridotto a messa in scena, meglio ancora: a farsa. Come per mio figlio quando si maschera da Spiderman, così per il figlio di Briatore la povertà è un gioco di ruolo, da consumare attraverso l’esperienza fittizia del lavoro. Che non produce più effetti trasformativi sulle singole identità.

Il figlio di Briatore che fa il cameriere non è un cameriere, resta il figlio di Briatore. E così l’uguaglianza non è un valore, è un gioco: come ci si rifanno gli zigomi, così ci si trucca da poveri.

Mentre al figlio di un cameriere è ormai praticamente impossibile una qualunque forma di mobilità sociale, seguendo un modello di trappola sociale del potere che irrigidisce ogni giorno di più con violenza e senza vie d’uscita i ruoli e le funzioni sociali: donne, poveri, lavoratori, cittadini onesti.

Questa destra vorrebbe costringerci a vivere in una società in cui l’unico modo per una donna per uscire dai ruoli imposti di subalternità sia svegliarsi nel letto di un potente. Ciò a cui assistiamo non è semplicemente un degrado dei costumi, ma la rappresentazione di un potere che espropria “gli altri” di ogni loro potenza sociale e di ogni espressione emancipativa, li costringe ad abitare un mondo in cui si può stare a condizione di non essere più se stessi.

La lezione per la sinistra è proprio questa: decisamente non è soltanto una questione morale, ma un’urgenza sociale.

Non basta far dimettere qualcuno, bisogna aprire varchi affinché ciò che il potere fissa e irrigidisce con protervia possa essere di nuovo contendibile e oltrepassabile e l’esperienza singolare del mondo sociale non sia per forza espressione di alienazione.

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