Sospettiamo che, intorno alla gigantesca multa da 1,2 miliardi di euro, irrogata ad Amazon dall’Antitrust italiana, il Paese di dividerà più o meno come accadde a metà anni ’70 con la televisione commerciale. 

Allora uscimmo dal monopolio della Rai dalla sera alla mattina scoprendo che negli apparecchi tv c’era una manopola, fino allora trascurata, che ruotava e portava a televisioni nuove. La sorpresa si trasformò in godimento immediato: usando il telecomando la semplice visione si trasformava in una specie di navigazione.

Accadde così che la soddisfazione del consumatore, totem del liberalismo da bottega, esplose improvvisamente, enorme e irresistibile, stroncando sul nascere ogni illusione di porre un argine all’accaparramento privatistico dello spettro elettromagnetico.

Spinti da quello tsunami, i media italiani deviarono di colpo dal percorso che l’Europa stava intraprendendo, ovvero lo sviluppo della tv continuò ad essere pianificato passo passo per non sconvolgere gli equilibri dei ricavi del broadcasting rispetto a quelli della stampa e agli interessi dei cittadini produttori (troupes, artisti, tecnici e creativi) altrimenti destinati a essere travolti dagli spot e dal prodotto americano.

Da noi, invece, il travolgimento fu totale: chiusero nove sale cinematografiche su dieci, crollarono gli incassi della filiera cinema; la serialità piombò nei palinsesti dall’estero a prezzi che rendevano velleitaria ogni idea di buttarsi a farla in proprio; la tv divenne un ramo della finanza che forniva il credito per rastrellare prodotti sui mercati, spazzare i concorrenti e consolidare un monopolio protetto da sé stesso e garantito, per di più, dalla funzione ancillare della Rai.

Il punto di quella vicenda è che non si trattò di una svolta cosiddetta disruptive, il termine coniato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter che definisce cambiamenti che frantumano un sistema mediante l’introduzione di atti fortemente innovativi.A meno che non si voglia definire tale il semplice dirottare in nuove tasche risorse che restano tali e quali. Sul piano produttivo poi il risultato fu la distruzione pura e semplice.

Il supermercato onnipresente

Nel caso di Amazon l’elemento disruptive esiste, ma a monte dell’esistenza dell’azienda. Si chiama internet. Questo è infatti il mezzo che, come le ferrovie e l’automobile che hanno messo in movimento persone e cose, ha mutato il rapporto fra il chiunque e il dovunque nei confronti dell’informazione. Con internet si è trasferito online il modello di business dell’antico Postal Market che si usava per scegliere le merci e farsele spedire contrassegno.

Acciunffando l’innovazione di internet Amazon la usa per farsi supermercato onnipresente:  strozza i fornitori, espone in prima fila quello che le pare, ti dà la tessera dove accumuli regali secondo quanto spendi, rileva virtù e vizi sottesi alle tue azioni, ti reclude rispetto alle offerte concorrenti.

Sia cinquant’anni fa con il formarsi del monopolio della tv commerciale, giunto in breve alla conquista del governo, sia oggi con Amazon, che addirittura si lancia verso il dominio dello spazio, si constata che l’essenza intima del monopolio legato alla gestione dei dati informativi non sta nell’imporre direttamente al consumatore costi esosi, ma piuttosto nel saturarne i bisogni (come ha fatto Facebook comprandosi prima Whatsapp e Instagram e poi promettendo di farsi piattaforma di videogiochi) per farsene un alleato nel mentre che scarica i danni sul resto del sistema: economico, politico, culturale o quel che sia.

L’uovo o la gallina?

Oggi come allora siamo di fronte a un interrogativo che riguarda l’uovo e la gallina, ovvero se fare sodo il primo o allevare la seconda per l’arrosto. Chi guarda al futuro vedrà la seconda come la scelta più ovvia. Mentre altri preferiscono la prima, come nel caso di Libero che in un articolo del 12 dicembre di Vittorio Feltri invoca la remissione del multone ad Amazon in virtù della sua «funzione sociale» e tanto più, questo il suo sospetto, perché rifilare fregature a chi fornisce il godimento che piace alle persone puzza di «sinistra politica». 

La  multa italiana ad Amazon non è un’alzata d’ingegno provinciale e velleitaria, ma parte della tenaglia che stringe le big tech campioni di internet. Da un lato ci sono i politici statunitensi e cinesi che, dopo averli favoriti in ogni modo ora vagheggiano di bloccarne il bullismo sul mercato e la deresponsabilizzazione nei confronti dei contenuti che promuovono. Il che sarà possibile solo a patto di non perdersi in scemenze di censura.

Dall’altro lato stanno crescendo (lo racconta l’Economist) uno stuolo di imprese locali e regionali che affittano taxi, consegnano cibo e offrono altri servizi tramite applicazioni, e che diventano un punto di forza rispetto al mondo dei giganti. Hanno l’obiettivo di trattare non prodotti «globalizzabili e globalizzati» (quali un motore di ricerca o la socialità ridotta a social), ma servizi legati al territorio. 

Lo fanno, sempre secondo l’Economist, Sea, Grab e GoTo nell’Asia del sud est, Kakao e Coupang in sud Corea, MercadoLibre in Argentina, Reliance e Tata in India. Per i servizi di consegna si basano su Zomato e non su Amazon.

A questi possiamo aggiungere la crescita del fediverse, reti di piattaforme open source e autonome ma capaci di interfacciarsi fra di loro. Si reggono con il contributo degli utenti e sfatano il mito del gratuito. Fra tutte, forse, è la prospettiva più interessante.

C’è vita, insomma, al di fuori dei big tech di Stati Uniti e Cina e dei guai che questi hanno a casa loro. Può essere quindi che il multone ad Amazon non provenga, come Vittorio Feltri sospetta, da idee bacate di sinistra, ma da una pragmatica valutazione dei rapporti di forza in divenire sul mercato. Senza il bisogno di lanciare allarmi nel popolo per armarlo contro l’idea di farlo un poco più sovrano.

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