Il fronte repubblicano è morto e sepolto. L’ipotesi di una convergenza di tutte le forze contrarie alla destra è tramontata.

Enrico Letta ha provato ad agire da ponte tra componenti diverse per allargare il più possibile il ventaglio dell’alleanza benché abbia peccato di timidezza: non è arrivato ad includere anche Matteo Renzi da lato, e Giuseppe Conte dall’altro.

Solo un appello urbi et orbi, senza impelagarsi in accordi politici, avrebbe dato il senso della necessità di una diga contro il populismo e l’orbanismo tinti di nero. 

Ma anche il mini fronte messo in piedi la settimana scorsa è naufragato sotto le bordate di Carlo Calenda.

Ora il Pd è rimasto praticamente solo. E deve agire di conseguenza: deve pensare a sé stesso, più che fare il dispensatore di seggi sicuri ai vari cespugli che gli sono rimasti intorno.

Tra l’altro, non si capisce proprio quale contributo elettorale possono dare l’improvvisata formazione di Luigi Di Maio o vecchi routier della politica democristiana e postdemocristiana come Bruno Tabacci o Pier Ferdinando Casini. Un loro passo indietro, come quello compiuto di Pier Luigi Bersani e Vasco Errani, sarebbe opportuno.

Al loro posto il Partito democratico dispone di una rosa di candidati e candidate, impegnati nei territori,  emersa dalle consultazioni effettuate tra gli iscritti nelle varie federazioni. Riconoscere con la candidatura l’impegno profuso da queste persone fornisce un additivo alla campagna elettorale del partito, mentre paracadutare qualche personaggio in cerca di rielezione è disincentivante anche per l’elettorato più fedele.

Questa scelta “egoistica” risponde al duplice obiettivo al quale il Pd non può che aspirare dopo ultimi eventi: diventare il primo partito italiano e disporre di un gruppo parlamentare coeso. Libero.

In questo scenario il Pd assurge al ruolo di baluardo principe a fronte di un governo di destra,  o di pivot di uno schieramento di centro-sinistra vittorioso; e, soprattutto, crea le condizioni per impiantare definitivamente quel grande partito socialdemocratico che è sempre mancato nel nostro paese.

Per centrare questi obiettivi occorre una campagna elettorale all’attacco, con parole forti e mobilitanti, e senza pruderie (perché non mostrare nei manifesti i saluti romani dei dirigenti di Fratelli d’Italia?). E candidature, sia fresche e paritarie, che competenti e radicate nei territori.

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