Giorno dopo giorno, il conto dei morti da Covid-19 continua a salire e non sembra fare più notizia, come se ci avessimo fatto l’abitudine, perché «questo è il Covid». Eppure, la mortalità da Covid-19 in Italia è alta più che altrove. È perché da noi ci sono più anziani, ci viene detto. Ma è proprio così?

La pandemia è qui per restare, ne siamo consci, e nel guardare avanti dobbiamo pensare a cosa dovrà fare la nostra sanità pubblica. Proprio adesso che dobbiamo definire un «recovery plan» e progettare il futuro, dovremmo sapere che non è solo una questione di sanità, ma riguarda le politiche economiche e sociali.

I morti tra gli anziani

Nel suo ultimo rapporto sulla pandemia, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) riporta i dati per i tre periodi marzo-maggio, giugno-settembre e ottobre-gennaio e rileva che, dei 2 milioni e mezzo di casi totali registrati dall’inizio, l’età mediana è di 48 anni, mentre tra gli oltre 85 mila deceduti essa sale a 83 (mediana significa che la metà di quegli 85 mila morti aveva più di 83 anni!).

Tra i deceduti, i minori di 50 anni sono stati finora l’1,1 per cento, le donne il 43,7 per cento (e tra loro l’età mediana di morte è addirittura di 86 anni). Le classi di età più frequenti sono quella 80-89 (41,6 per cento del totale), quella 70-79 (24,4 per cento) e quella con più di 90 anni (20,3 per cento).

Non vi è quindi alcun dubbio che tra i più colpiti vi siano gli anziani. Il rapporto rileva anche che, tra i deceduti, la quota di chi non era affetto da alcuna patologia pregressa è rimasta bassissima (dal 3,7 per cento del primo periodo è scesa al 1,4 per cento del secondo periodo, pari a 196 casi totali).

Pertanto, il 98 per cento di chi è morto a causa del Covid-19 aveva altre patologie in essere: il 12,1 per cento ne aveva una soltanto, il 18,6 per cento ne aveva due, mentre ben il 66,3 per cento ne aveva tre o più (con un aumento fino al 74,5 per cento nel terzo periodo). Quali patologie? Per lo più cardio-vascolari, diabete, insufficienza renale.

Il rapporto ISS mette in luce che tutte queste caratteristiche si sono consolidate, senza significativi cambiamenti tra il primo e il terzo periodo, e che c’è, in altre parole, una certa persistenza nel come il virus continua a diffondersi e a colpire. Tuttavia, l’Italia è il sesto paese al mondo per numero di decessi (sul totale degli abitanti), con 1471 morti per milione, dietro a Belgio (1815), Slovenia (1694), Regno Unito (1565) e Cechia (1529), davanti a Bosnia, Nord Macedonia e USA. Perché?

A man passes by replica of Michelangelo's Pieta painted on the wall of Pirogov hospital in Sofia, Sunday, Feb. 7, 2021. Bulgarians on Sunday received their first doses of the AstraZeneca COVID-19 vaccine as the country is struggling to increase the number of inoculations to catch up with the other EU member nations. (AP Photo/Valentina Petrova)

Al di là delle differenti «risposte» che i vari paesi hanno adottato per far fronte alla pandemia, è innegabile che l’alto tasso di mortalità italiano si staglia con evidenza. La spiegazione prevalente che ci è stata data – nelle dichiarazioni di esperti e decisori pubblici – è stata che «la popolazione italiana è anziana» (un terzo degli italiani ha più di 65 anni) e che, pertanto, come confermerebbero i dati visti sopra, siamo più proni ed esposti alla pandemia. Ma è proprio così? Non si tratta qui di andare a cercare responsabilità o colpe ma di guardare al problema da un altro angolo.

L’età non è tutto

Da molti anni ormai, tra gli studiosi – non solo medici ed epidemiologi, ma anche scienziati dell’ambiente e sociali – si è affermata la consapevolezza che sono gli aspetti sociali e ambientali a determinare (o a concorrere ad accrescere) la virulenza e la diffusività di un’epidemia (e quindi di una pandemia).

Se è da tempo immemore che ormai sappiamo quanto malsane condizioni igieniche e sanitarie siano veicoli di malattie e infezioni ed è altresì ben noto quanto le situazioni di indigenza, povertà o marginalità siano all’origine di quelle condizioni, da qualche decennio si è affermata la consapevolezza che molte di quelle che i medici chiamano malattie «non trasmissibili» siano più frequentemente associabili a diete povere e sbilanciate, a stili di vita e pratiche non salutari o logoranti, ad ambienti insalubri, e che questi siano per lo più ricollegabili alle condizioni socio-economiche degli individui.

Le malattie non trasmissibili sono oggi, nel loro insieme, le cause di morte più frequenti: quelle del sistema cardio-vascolare e circolatorio come quelle del sistema respiratorio, il diabete, l’obesità, i tumori. Sono malattie che diventano «croniche» e che portano a invecchiare «male». Se sono le persone a più basso reddito a morire di più e in età più giovane per queste malattie è perché non possono alimentarsi in modo sano, avere un’occupazione non logorante e vivere in ambienti salubri. Tutto questo ha a che fare con il Covid-19? Forse sì, visto che il 98 per cento di coloro che ne muoiono hanno proprio quelle patologie…

Ad esempio, la diffusione dei cibi precotti e pre-lavorati o in scatola, del junk food di composti ad alto contenuto calorico, sapidi ma poco nutrienti oppure ricchi di zuccheri, il mangiare sistematicamente poco e male – cattive abitudini e malnutrizione di cui l’industria alimentare è responsabile ma che fa leva sull’accessibilità a poco prezzo – sono oggi considerati tra i fattori determinanti dell’aumento dell’obesità e delle malattie cardio-vascolari.

C’è una correlazione altissima tra condizione socio-economica «povera» e questi usi alimentari. Ed è altresì ormai acquisito che vi sia una relazione «sociale», non solo «individuale», tra queste pratiche alimentari e l’insorgere di quelle patologie pur «non trasmissibili», definendo un insieme di condizioni che gli esperti di antropologia medica hanno chiamato «bio-sociali».

L’obesità, il diabete, la propensione all’infarto saranno più alti, a parità di pre-condizioni individuali, tanto più le condizioni di contesto, sociali, vi concorreranno.

La sindemia

A volunteer waits on the staircase to start disinfection at Pirogov hospital in Sofia, Sunday, Feb. 7, 2021. Bulgarians on Sunday received their first doses of the AstraZeneca COVID-19 vaccine as the country is struggling to increase the number of inoculations to catch up with the other EU member nations. (AP Photo/Valentina Petrova)

Già dagli anni Novanta Merrill Singer, adottando un approccio bio-culturale (e quindi bio-sociale) sviluppò il concetto di sindemia – la crasi di sinergia e epidemia o pandemia – cercando una sintesi tra determinanti socio-economiche e culturali e l’insorgere delle patologie, in questo criticando la pratica prevalente in medicina di vedere le malattie come astratte dal contesto sociale e dall’ambiente in cui si sviluppano (ma di questo già molti anni prima aveva parlato Ivan Illich nel suo La nemesi medica).

Si ha una sindemia quando si hanno due o più pandemie o malattie in un gruppo sociale in cui le interazioni biologiche e sociali esacerbano la prognosi e l’impatto (tipiche sindemie si sviluppano in condizioni di povertà di gruppi o fasce di popolazione). Se conosciamo il contesto, capiremo meglio quali patologie si potranno sviluppare. Le disuguaglianze di salute non si spiegano solo con differenti caratteristiche individuali, che pure esistono, ma con le disuguaglianze sociali in cui gli individui vivono.

Qualche anno fa Richard Horton, editor di The Lancet, aveva avvertito della necessità di «riconcettualizzare» le malattie non trasmissibili, adottando un approccio sindemico. E nel suo più recente commento Covid-19 is not a pandemic (settembre 2020) aveva concluso che questa pandemia non è che una sindemia di Covid-19 e di malattie cardio-vascolari e respiratorie, diabete e simili. E vederlo come sindemia sottolinea le sue co-determinanti sociali.

In sostanza, per tornare a noi, non è che in Italia si muore di Covid-19 più che altrove perché ci sono più anziani ma, probabilmente, perché quegli anziani hanno altre malattie.

È una sindemia. Non è questa questione solo sanitaria: non sarà, infatti, tutto ciò, forse legato alle loro condizioni socio-economiche? Ce lo diranno i dati, quando li avremo (forse), ma c’è da scommettere che le disuguaglianze di condizione, e quindi di salute, abbiano il loro peso.

Non lasciamo sulle spalle della sanità la soluzione di problemi che sono altrove, in questo paese che ormai ristagna nelle sue croniche disuguaglianze. Superare la pandemia vorrà dire anche affrontare quelle condizioni.

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