La verità è che la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra civiltà; e che garantire la pace mondiale deve essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo che viene molto prima della scelta fra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo. Non esiste, infatti, la possibilità di un sostanziale progresso sociale finché non sia istituita un’organizzazione internazionale tale da impedire effettivamente la guerra tra le nazioni della terra» (Hans Kelsen 1944, La pace attraverso il diritto).

Sembra facciano eco a queste – un’eco amarissima – le parole di Domenico Quirico (La Stampa, 6 giugno), che, commentando la brutale dichiarazione di Danilov, il segretario del consiglio di sicurezza ucraino, secondo il quale per Kiev il rischio del ricorso all'atomica da parte dei russi non ha alcun significato, ci avverte: «Questa progressione della guerra verso la esplicita assenza di limiti…impone alcune amare constatazioni. Il diritto internazionale, purtroppo, non ha mai impedito o imposto limiti ad alcuna guerra…A limitare il ricorso alla guerra tra i Grandi, nella seconda metà del Novecento, è stata soltanto la reciproca paura di annientamento, sintetizzata nella parola deterrenza atomica».

Ma la deterrenza, come dimostra lo sciagurato commento di Danilov, non funziona più. Non importa agli uni; ma agli altri, avverte Quirico, importerà ancor meno. Tutta la storia mostra che anche i popoli che vivono sotto i tiranni, quando il loro territorio è invaso non badano più «alle magagne di chi li comanda, ma solo ad annientare l'invasore». Una sola cosa vorrei aggiungere a questo allarme con cui non da oggi Quirico cerca di risvegliarci dal sonno dogmatico degli affari nostri o delle incipienti vacanze, affidati come siamo a chi guida il treno.

Corsa al dominio

Non è solo l'atomica, l'orizzonte dell'assenza di limiti. Chiunque può vedere oggi in atto la riconfigurazione del globo in una feroce e primitiva corsa alla formazione di nuovi blocchi di potenza e volontà di dominio, al riarmo: si fa sotto i nostri occhi sempre più diffuso e sempre più violento il disordine in cui si preparano nuove guerre, una guerra mondiale nemmeno più a pezzi. E allora riesce davvero incomprensibile che così poche siano le voci a levarsi nel dibattito pubblico, per gridare No! Fermatevi!

Non si parla solo per ottenere risultati. Si parla perché tacere o rimuovere il vero è un crimine che noi – i più, che non decidiamo nulla - abbiamo almeno il potere di non commettere. Nel peggiore dei casi si parla per i posteri: ecco, non è l'umanità intera di una generazione ad essere sfigurata da questa muta, passiva o attiva complicità con il suicidio delle civiltà.

Chi avrà gridato no avrà conservato ai posteri un pezzetto di umanità da cui ricominciare, su quell'immenso tizzone spento, senza più una scintilla di memoria o di pietà, che avremo consegnato ai figli e nipoti sopravvissuti, al posto del mondo umano. Ma si parla anche per il principio etico di universalità: perché, se tutti parlassero, anche quelli che a farlo corrono veri rischi, allora i leader non se lo potrebbero più permettere, l'arbitrio dell''illimite. Ed ecco un punto in favore di Kelsen: non è vero che il diritto internazionale non ha mai impedito alcuna guerra. Dipende da come è fatto.

Perché nessuno più di Kelsen è lontano da un idealismo ebbro: parte dall’assunto che la guerra non è il mezzo né il fine della politica ma è il suo presupposto. La politica non è la continuazione della guerra con altri mezzi, ma il lavoro per estinguerla.

Ed è proprio quello che la politica fece quando il grido unanime delle nazioni la fece diventare per un momento sovranazionale. L'Unione europea, per esempio, ci ha preservato da guerre interne dal 1950 a oggi, e non è detto che lo farà più quando le sue nazioni saranno ridiventate la parata di sovranismi armati che molte di loro già minacciano.  

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