Lega e Pd sono I due sconfitti delle ultime elezioni. Eppure i due segretari hanno reagito in maniera diametralmente opposta. Enrico Letta, con abito e allure funerea, con poche, scarne parole ha preso atto del risultato e annunciato la convocazione di un congresso (finalmente) e la sua non ricandidatura. In sostanza, il segretario dei democratici rimane in carica per gli affari correnti in vista dell’appuntamento congressuale. Anche in questo Letta ha seguito i passi di Mario Draghi.

Matteo Salvini ha invece affrontato la conferenza stampa con un piglio renziano, buttando, come fece nel 2018 l’allora segretario del Pd, la palla in altri cortili: la colpa è di chi ha voluto (Giancarlo Giorgetti & C.) ingabbiare la Lega in un governo in cui «eravano ospiti appena sopportati», senza poter esprimere appieno le nostre posizioni, né ottenere granché; ora  che ce ne siamo liberati possiamo tornare a far valere i nostri propositi. Un ragionamento ineccepibile.

Non c’è dubbio che la sintonia degli elettori  leghisti - ma non della classe dirigente “nordista” - sia più forte con Giorgia Meloni che con Mario Draghi. Però non bastano gli amorosi sensi in politica: è necessario disporre di un cospicuo potenziale di coalizione o di ricatto per farsi ascoltare.La Lega dispone ora di questa risorsa.

Grazie ad un’abile contrattazione  nella distribuzione dei collegi uninominali, il Carroccio dispone di una quota di parlamentari nettamente superiore al suo 9 per cento: son ben 65 i deputati eletti, esattamente quanti il Pd che pure ha ottenuto il doppio dei voti - e sono più della metà di quelli di Fdi che ha il triplo dei voti.  Forse questo può bastare a rabbonire la classe politica leghista, in buona parte ancora gratificata dal seggio parlamentare.

Salvini può anche vantare la conferma della sua strategia di discesa al sud. La Lega ha infatti retto nelle regioni meridionali , mentre i suoi elettori sono trasmigrati in massa a FdI e all’astensione al nord.

Se al sud la Lega non avesse mantenuto percentuali intorno al 5-8%, pressoché identiche al 2018, non avrebbe potuto compensare il crollo drammatico di consensi nel centro-nord e soprattutto nel Lombardo-Veneto, le uniche due ragioni dove supera, di poco, il 10% dei voti.

Nutrita rappresentanza parlamentare, ritorno al governo in posizione non subordinata come era nel precedente esecutivo, consenso diffuso nazionalmente, sono tutte frecce nell’arco di Salvini per rimanere in sella ad onta della perdita della metà dei voti.

Rimane però all’orizzonte la pressante richiesta dei governatori del nord per  l’autonomia differenziata, una richiesta che, oltre a non piacere agli alleati di governo, rischia di spazzare via il partito dal sud e di favorire una egemonia del M5s in quella zona, facendone il corrispettivo di quello che fu la Lega Nord. Il Capitano è ancora alla guida del suo partito, ma non naviga in acqua tranquille.

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