Da parte del governo Meloni c’è un grande attivismo sul tema della scuola e ha un indirizzo sbagliato e regressivo. È un problema molto serio che richiede una grande attenzione perché la scuola pubblica è il tassello più importante della democrazia.

La Costituzione pone l’obbiettivo di «rimuovere gli ostacoli» alla piena realizzazione della persona, per farlo ci indica l’istruzione e l’educazione delle ragazze e dei ragazzi come la strada maestra. Istruire i giovani significa accompagnarli in un processo di crescita che gli dia nozioni e strumenti per affrontare la complessità delle relazioni umane, lavorative e politiche in cui saranno immersi nella società, che li educhi al consenso e al rispetto dell’altro: formare i cittadini.

Questo ruolo diventa tanto più vero quando il contesto familiare, sociale e geografico di tante ragazze e ragazzi non può aiutarli a riempire il loro bagaglio umano e culturale. Un bagaglio indispensabile per superare le diseguaglianze che subiscono nella condizione di partenza. Per questo la dispersione e l’abbandono scolastico sono una delle principali piaghe per la democrazia.

Cosa fare

Ci sono sfide vecchie e nuove: la dispersione, i crescenti disagi psicologici e la marginalizzazione sociale che tanti giovani subiscono nelle aree interne e nelle periferie delle grandi città. Si aggiunge poi il ruolo che hanno i social nella diffusione di dati che spesso vengono scambiati per nozioni o fatti e, molte volte, non lo sono.

Il combinato disposto di pandemia e mondo digitale ha avuto effetti dirompenti. Se alle forme di disagio che sorgono nell’età fragile dell’infanzia e dell’adolescenza non si danno risposte a scuola, il rischio per le ragazze e i ragazzi è enorme, e come sempre colpirebbe in particolare chi non può permettersi strade di assistenza e recupero.

Le politiche del diritto allo studio nel corso degli anni sono state pensate immaginando modelli famigliari supportati da alta qualità di servizi e, per chi li aveva, redditi adeguati. Oggi sono insufficienti. Tutto è cambiato, non in meglio e l’espulsione scolastica è tornata da essere in gran parte un’espulsione di classe.

In questa situazione con la destra assistiamo, purtroppo, a una regressione culturale nell’approccio all’istruzione. Si usano le prove Invalsi, pensate per monitorare le scuole, come strumenti per valutare i giovani. Con il disegno di legge sulla valutazione del comportamento degli studenti, hanno scelto un approccio punitivo, come hanno già fatto con la legge sulla sicurezza del personale docente, che ha introdotto nuove sanzioni e pene.

Non si deve tollerare la violenza, fisica e verbale, nella comunità scolastica, ma il tema è come questi fenomeni si affrontano e, soprattutto, si prevengono. In una legge che parla di scuola si sono introdotte due fattispecie di aggravanti nel codice penale.

Come se non bastasse adesso, nel disegno di legge sulla valutazione del comportamento, si prevedono, con un ulteriore emendamento, nuove sanzioni pecuniarie da 500 a 10.000 euro. Contestualmente non sono stati previsti reali finanziamenti per il nuovo Osservatorio che dovrebbe occuparsi di favorire azioni di cooperazione e dialogo all’interno delle comunità scolastiche, fondamentali per riportare molte famiglie a riconoscere i diversi ruoli che si devono avere in rapporto alla scuola.

Superare il precariato

Se nuove pene diventano l’aspetto principale dell’intervento, non si fornisce alcun sostegno alla funzione educante e formativa della scuola, e nel testo sulla valutazione si mortifica il lavoro docente e si cancella il giudizio descrittivo nella scuola primaria, si tradiscono la missione e lo spirito dell’istruzione pubblica per come l’abbiamo conosciuta fino a ora.

Il compito di formare dei cittadini, anche educandoli alle regole, passa per strategie che amplino l’offerta formativa e la solidità della scuola pubblica con più risorse e strumenti. A tutto questo urge dare risposte e dotare la comunità scolastica di maggiori risorse e strumenti. Bisogna investire sugli insegnanti, ai quali troppo spesso si chiede davvero di tutto, arricchire gli istituti anche di nuove figure professionali come educatori specializzati, pedagogisti e psicologi.

Bisogna intervenire per migliori retribuzioni e per il superamento del precariato, il rafforzamento del tempo di scuola, migliori infrastrutture, nuove strumentazioni e formazione permanente per chi insegna; si devono poi mettere in campo investimenti di carattere sociale e culturale verso le famiglie di studenti e studentesse più a rischio di espulsione. Invece troppo spesso alla scuola si trasferiscono i “problemi” da risolvere e quasi mai le risorse e gli strumenti per farlo.

Se poi ci si illude di ottenere risultati tramite l’approccio esclusivamente punitivo, si commette un tragico errore. La “pena”, che ormai sembra essere sempre più la soluzione per tutto, è una scorciatoia che produrrà risentimento, altra violenza e, specie nelle situazioni di maggiore fragilità sociale, respingerà gli studenti.

La democrazia è prima di tutto la scommessa che tramite la partecipazione, l’istruzione e la coscienza civile, le cose possano cambiare in meglio. È ciò in cui noi abbiamo sempre creduto e in cui continuiamo a credere. L’approccio punitivo del governo va nella direzione opposta, non affronta i problemi e ne crea semmai di nuovi.

La scuola, dunque, ridiventa centrale per il futuro del paese come all’inizio della vita della Repubblica. Perché, per dirla con Calamandrei, è il luogo più importante se si vuole che la democrazia prima si faccia, poi si mantenga e si perfezioni. La costruzione dell’alternativa per intercettare la vita delle persone deve ripartire anche da questa consapevolezza.

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