Della “rete” unica si parla dai tempi della Stet, prima ancora della privatizzazione di Telecom Italia (ora Tim). Oggi torna d’attualità per l’ennesima volta sull’onda della fusione Tim/OpenFiber. Quella della rete è una sorta di stucchevole soap opera, ma il 2021 potrebbe essere la sua stagione finale: perché è nell’interesse di (quasi) tutti.

È nell’interesse di Tim. I ricavi da telefonia mobile si erodono stabilmente perché il mercato è saturo, e le compagnie non riuscendo a differenziare le offerte, devono competere sui prezzi. Anche l’offerta di banda, pur se in crescita, è difficilmente differenziabile dai concorrenti e ha elevati costi di promozione e di acquisto di contenuti da distribuire (vedi l’accordo con Dazn per la Serie A).

Così la liquidità generata dalla gestione operativa (al netto degli investimenti fissi) è in discesa costante dagli 8,6 miliardi del 2010 ai 3,5 dello scorso anno: risorse insufficienti a finanziare gli investimenti necessari a potenziare e completare la rete in fibra, anche perché pesano 23 miliardi di indebitamento (leasing incluso) e 23 di avviamenti, eredità delle guerre passate per il controllo della società e di fusioni e acquisizioni a prezzi scriteriati. Senza contare il salasso per l’acquisto in asta delle frequenze per il 5G e gli investimenti per svilupparlo.

La strategia di Tim, già utilizzata con successo con InWit, la società con Vodafone delle torri di trasmissione, è stata di conferire la rete secondaria (l’ultimo tratto che entra nelle case) in cambio del 58 per cento di una nuova società, FiberCop, insieme a Fastweb (che conferisce la sua fibra) e al fondo KKR.

In questo modo Tim è riuscita a deconsolidare debito (e personale) e incassare 1,8 miliardi da KKR. Ma soprattutto mette pressione a OpenFiber perché si arrivi alla fusione in quanto Tim dimostra di voler procedere anche da sola, di saper trovare i capitali, e fissa un valore di base per la negoziazione (4,7 miliardi per FiberCop, che può aumentare con il conferimento del resto della rete Tim per garantirle la quota di maggioranza nella Rete).

Perché questo è il vero obiettivo di Tim: con la rete deconsolida altro debito e personale, cessa la concorrenza sui prezzi perché tutte le compagnie accedono a pari condizioni alla stessa infrastruttura, si abbatte il costo del debito (di fatto garantito dallo Stato), e si incassano le sinergie da investimento.

La rete fa felice Enel che vende al fondo Macquarie il suo 50 per cento di OpenFiber con una plusvalenza da quasi 2 miliardi, per una società che ha perso 68 milioni solo nel primo semestre 2020.

Fa felice la Cassa Depositi e Prestiti che aggiunge poltrone e lauti dividendi al suo già ricco carnet.

Felici KKR e Macquarie, pur avendo sborsato 4,5 miliardi in due, perché così possono banchettare alla ricca tavola dei dividendi assicurati dal nuovo monopolio che si viene a creare.

Felice Vincent Bollorè che vede la fine di un incubo: da quando con la sua Vivendi è entrato in consiglio di Tim, il titolo ha perso due terzi del valore. Felici Vodafone e Wind3 che ora possono vendere la banda larga senza dover investire nella propria fibra, e senza più guerre sui prezzi.

Felici i piccoli risparmiatori in Tim: la fusione sarà pure una gigantesca operazione con parti correlate (la Cassa Depositi e Prestiti), ma dopo 10 anni di perdite non si può andare per il sottile. Felici i politici che in coro plauderanno alla nuova era digitale, riecheggiando toni da Cinegiornale Luce; sicuri che Bruxelles non vorrà rovinarci la festa.

Non sarebbero troppo felici i consumatori, perché alla fine saranno loro a pagare la rete. Ma in cambio avranno ore illimitate di Netflix, calcio e videogiochi garantiti anche nelle baite dell’Abruzzo. Come sempre, Panem et circenses.

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