Il 7 aprile del 2011, a Istanbul, veniva adottata dal Consiglio d’Europa la prima Convenzione internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne. Dieci anni più tardi, proprio la Turchia, il paese che ne aveva ospitato la firma e che per primo aveva ratificato il documento, annuncia il suo ritiro. La Convenzione, secondo il presidente turco Erdoğan, danneggia la famiglia, incoraggia il divorzio e favorisce le comunità Lgbt+, mentre i diritti delle donne sono già garantiti dalla costituzione e da tradizioni e costumi. Per cui, come ha scritto il vice presidente Fuat Oktay, «non è necessario cercare rimedi esterni o imitare gli altri».

Non c’è però soltanto la Turchia. A maggio dell’anno scorso, l’Ungheria di Viktor Orbán ha bocciato la ratifica della Convenzione di Istanbul con un argomento simile, ovvero: tutte le garanzie legali per proteggere le donne dalla violenza sono già presenti nelle leggi del paese, mentre il testo contiene un approccio pericoloso riguardo al «genere», oltre a norme troppo generose in fatto di protezione delle donne migranti e richiedenti asilo.

La Polonia ha a sua volta annunciato, a luglio, di voler uscire dalla Convenzione. Questa, per il governo di Varsavia, non solo minaccia la famiglia tradizionale, ma essendo «ideologica» non riesce a vedere che è proprio la crisi della famiglia, cioè del pilastro della nazione, a causare la violenza contro le donne. Perciò, il premier Morawiecki ha annunciato che sono già in atto sforzi per stipulare un trattato sui «diritti della famiglia», come alternativa regionale centro-orientale al vituperato strumento del Consiglio d’Europa.

Per l’alleanza, guarda ovviamente all’Ungheria, ma anche a Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, e a tutti i paesi che ad oggi non hanno ancora ratificato la Convenzione di Istanbul a causa di opposizioni interne.

La sfida sovranista e illiberale 

La battaglia contro violenza di genere si trova dunque al centro di una sfida sovranista, ma anche al cuore della torsione illiberale in atto in molti paesi. Se guardati attraverso la lente della contesa sulla Convenzione di Istanbul, sia il sovranismo populista sia la rivolta anti-liberale si rivelano discorsi profondamente strutturati da una certa visione dei rapporti tra i generi.

Da una parte, la famiglia tradizionale e gerarchica viene assunta come simbolo della nazione, per difendere l’autonomia dello Stato dall’interferenza degli organismi internazionali. Dall’altra, attraverso l’attacco allo stato di diritto, i diritti individuali delle donne, anche il diritto a restare vive, vengono subordinati all’affermazione di valori antiliberali e conservatori.

Le studiose Weronika Grzebalskaa e Andrea Pető, parlano per la Polonia e l’Ungheria di un «modus operandi» dell’illiberalismo che fa perno proprio sulle politiche di genere.

Ma in che modo la Convenzione di Istanbul minaccia questo modus operandi? Ovvero, perché è rappresentata dai conservatori politici e religiosi come il prodotto ideologico di un femminismo ostile alla famiglia e alla nazione?

Uno dei punti di più netta opposizione è la definizione di «genere». L’articolo 3 dichiara infatti che «con il termine ‘genere’ ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».

La distinzione tra “sesso” e “genere” permette di separare gli attributi biologici dai ruoli sociali, ma anche di comprendere che questi ruoli, diseguali e gerarchici, sono all’origine della violenza, e che pertanto per combattere la seconda bisogna intervenire sui primi, modificando la cultura con l’educazione, la formazione, i mezzi di comunicazione.

Questo però, agli occhi degli oppositori, significa minare la famiglia e il matrimonio, rimuovere le differenze, aprire all’accettazione dell’identità di genere come qualcosa di fluido.

Il conflitto intorno alle definizioni e alle politiche avanza anche nel nostro paese, dove lo spauracchio dell’“ideologia del gender” viene agitato dai gruppi cattolici ultraconservatori ogni qual volta un progetto di legge, un programma ministeriale o un’iniziativa educativa minacciano di modificare l’ordine gerarchico “tradizionale”.

La democrazia in pericolo

Come scrive il politologo Massimo Prearo nel suo libro L’opzione neocattolica, la posta in gioco per i movimenti anti-gender è la democrazia, che è stata ridefinita negli ultimi decenni attraverso l’estensione dei diritti delle donne e delle persone Lgbt+, e si è «emancipata dal fondamento religioso e teologico ancora presente al suo interno nella definizione delle norme relative ai ruoli di genere, alla sessualità e alla famiglia».

Il rifiuto della Convenzione è il rifiuto di uno strumento che minaccia di sovvertire, attraverso il diritto, la struttura antidemocratica e antiegualitaria dei rapporti tra i generi. Chi difende il modello patriarcale può accettare l’eguaglianza formale tra donne e uomini, ma si oppone a ogni intervento che modifichi le strutture culturali profonde di quel modello.

Il problema è che senza sovversione di quelle strutture non c’è lotta contro la violenza di genere, perché questa ha lì le sue radici. E i leader che oggi guidano la svolta illiberale in Europa ne sono ben consapevoli.

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