Doveva essere la nuova forma ideologica della sinistra globale: l’arma per sconfiggere il sovranismo e i populismi vari della destra ma anche per reagire al moderatismo stinto dei centrosinistra blairiani o socialdemocratici.

Alla fine invece l’ideologia woke o neo-antirazzista sta finendo per dar ragione ai suoi nemici, diventando un boomerang anche per chi la abbraccia. Dividere la società in gruppi razziali o di genere ha provocato un’anarchica e narcisistica guerra tra vittimismi, che possono essere presi à la carte come aggrada.

Come dimostra la politica alla Wilders, si può essere queer e anti-immigrati, gender fluid e intolleranti allo stesso tempo.

La teoria critica della razza

In principio c’è la critica delle “grandi narrazioni” cioè contro le ideologie del Novecento, gli archetipi del marxismo e del liberalismo con cui si interpretava il mondo. Da lì sono sorti gli studi post-coloniali o subaltern e cultural studies, che hanno messo in evidenza la storia negata dei popoli oppressi e subalterni, di cui si era persa traccia o la cui cultura era stata compressa o vietata. Tale ondata di ricerca ha occupato progressivamente le università americane e in seguito anche le europee, iniziando da quelle britanniche, per poi saldarsi con gli ambienti militanti dell’associazionismo.

Da un punto di vista intellettuale la prima polemica famosa è quella di Edward Said contro gli “orientalisti” occidentali: l’accusa è che questi ultimi pretendono di comprendere e studiare le altrui culture secondo i propri parametri. Ne sono nate infinite querelles tra studiosi che all’inizio stentavano a uscire dall’ambito accademico.

Ma con la “teoria critica della razza” si è cercato di sistematizzare il dibattito per investire tutta la società. I suoi seguaci sostengono che per capire davvero il mondo occorre concentrarsi sulle categorie identitarie di base: razza e genere (e orientamento sessuale). Ogni valore universale che tenda a diluirle o a cancellarle è essenzialmente falso o si tratta di un artificio per celare la verità dei fatti.

Le trappole

Di conseguenza – sempre secondo costoro – i princìpi a cui siamo abituati come quelli sull’integrazione, il dialogo o il colorblind (neutralità sulla razza, come si dice negli Usa) vengono definiti come una trappola che perpetua le ingiustizie basate sull’identità.

Per progredire davvero bisogna al contrario disfarsi di tali valori universali o delle regole di neutralità, per accettare di coesistere in base alla reale identità, cioè in base alla razza e al genere. In altre parole le persone devono pensare a sé stesse come a irriducibili creature razziali o di genere, accettandone tutte le conseguenze. Una società fatta di gruppi razziali o di genere sarebbe la condizione di base per ridefinire in modo giusto le condizioni della convivenza, ribaltando ciò che è accaduto in passato. Ciò permette di mettere sotto accusa il predominio secolare della razza bianca dominante, in particolare il maschio bianco padrone anche nella categoria dei generi. Secondo la cultura woke (termine afro-americano per definire una coscienza risvegliata) tali elementi sono irriducibili ed essenziali: nessuno se ne può liberare.

Robin DiAngelo che insegna all’università di Washington così lo spiega: «Noi bianchi americani viviamo in una società che è profondamente separata ed ineguale a causa della razza. I bianchi sono i beneficiari di tale separatezza e diseguaglianza. Il risultato è che siamo stati preservati dallo stress razziale mentre allo stesso tempo ci sentiamo autorizzati a meritare tale vantaggio. Ciò è dovuto al fatto che sentiamo poco il disagio razziale dentro una società che dominiamo senza aver avuto bisogno di creare una resilienza razziale. Socialmente inseriti all’interno di un profondo senso di superiorità di cui non siamo coscienti o che in ogni caso non potremmo mai ammettere a noi stessi, siamo divenuti molto fragili nel portare avanti conversazioni sulla razza. Consideriamo ogni sfida alla nostra visione sulla razza come una minaccia alla nostra identità: quella di persone brave e morali. Così percepiamo ogni tentativo di collegarci con il sistema razzista come un’ingiusta offesa morale. Il più piccolo stress razziale ci diviene intollerabile».

Essenzializzazione

Come si osserva il fatto razziale è essenzializzato in maniera irriducibile, accettando la logica degli stessi razzisti. Il medesimo ragionamento viene applicato alla teoria di genere. La logica alla base della critical race theory è che le persone sono diseguali e che lo resteranno, senza possibilità di remissione. Ne sorge una sorta di “anti-razzismo razzializzato” che vorrebbe correggere il razzismo sistemico ribaltandolo, ma finisce per riprodurlo. Le persone non contano per ciò che pensano, dicono o fanno ma per ciò che “sono” nel senso della razza o del gender. Per tutti il maschio bianco è l’avversario: intrinsecamente e irrimediabilmente razzista, misogino e pericoloso.

Senza rimedio

In tal modo la contestazione dell’ordine dominante diventa etno-identitaria e ogni fatto di cronaca viene vivisezionato secondo tale approccio. Secondo l’attivista anti-coloniale Rokhaya Diallo, giornalista francese di origini africane «il razzismo sistemico è un razzismo che non dipende dagli individui o dalla loro volontà. Non dipende dunque dalla morale personale o dalla responsabilità individuale. Si tratta di un fenomeno politico indissociabile da una storia che ha creato rapporti di forza sfavorevoli per le persone delle minoranze – neri, arabi, rom… Le persone prese individualmente possono non essere razziste ma, trovandosi in un ambiente che lo è, vi contribuiscono malgrado loro stesse».

Da ciò si desume che non c’è possibilità di rimedio: tutto viene cristallizzato nelle identità (razziali o di genere) di partenza. In tale prospettiva ogni bianco può (e deve) essere accusato di beneficiare del “previlegio bianco” e di incarnare – malgrado sé stesso – il razzismo sistemico. La conseguenza è la razzializzazione crescente delle lotte politiche: la vecchia frattura sociale si trasforma in frattura razziale o di genere. La rilettura del passato secondo la lente della razza collega ricercatori universitari e attivisti della società civile organizzata, alleati in una moderna caccia alle streghe (anzi agli stregoni), come vediamo accadere nelle università americane e britanniche (ed ora anche un po’ in quelle francesi). Alla fine tutto questo diventa una forma socialmente accettata di “hate speech” che vuole riscrivere la storia e considera il passato una colpa inespiabile.

Di questo fanno le spese attualmente gli ebrei nelle università Usa, non considerati più una categoria ammissibile al vittimismo (malgrado la shoà) perché bianchi dominanti, mentre i palestinesi sono ascrivibili ad una razza minoritaria subalterna. Alla ricerca di nuove idee, molta parte della sinistra contemporanea (a partire dalla New Left americana) si è appropriata di tali teorie sotto lo slogan ambiguo dell’intersezionalità, che reinventa la razza e il genere come costruzioni sociali.

Da qui discendono il “politicamente corretto” e la svolta identitaria, in cui ogni tipo di minoranza può cercare di assumere l’etichetta di vittima assoluta per contrapporsi alla razza o al genere dominante (ma deve anche guardarsi dalla concorrenza delle altre minoranze razziali o di genere). La mobilitazione delle minoranze sulla base di tale cultura vittimistica ha diversi effetti e viene sfruttata anche al di fuori dall’ambiente in cui è nata.

La differenza tra “bianchi” e “neri”, tra europei e africani o afrodiscendenti (ma anche arabi ecc.), viene esaltata e fissata come se fosse immutabile. Così anche la separatezza tra i generi. La possibilità di scegliersi il genere che si vuole (e di cambiare a volontà) è soltanto un’applicazione successiva: enfatizzare la mutabilità, l’instabilità e la provvisorietà delle identità non cambia il meccanismo di fondo che consiste nel voler ribaltare i rapporti di forza e di dominio senza cercare nessun compromesso.

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