La trovata sulla scuola che il governo ha inserito – in extremis? in cauda venenum? in articulo mortis? – nel decreto Aiuti, qualche giorno fa presentato da Mario Draghi e dai ministri Daniele Franco e Roberto Cingolani in conferenza stampa, si chiama “docente esperto”. Sarebbe una nuova figura di insegnante di ruolo introdotto dall’articolo 39 del decreto.

La qualifica di prof esperto sarà disponibile a partire dall’anno scolastico 2032-2033, cioè tra 10 anni, e vi accederanno gli insegnanti docenti di ruolo che abbiano conseguito una valutazione positiva per aver superato tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili. La riformetta fa parte della riforma del reclutamento e formazione dei docenti recentemente approvata con il decreto Pnrr 2 convertito in legge. La novità riguarderebbe 8mila insegnanti all’anno, uno a istituto in media, che guadagneranno 400 euro in più al mese.

Non si sa da dove partire per argomentare contro questa scemenza: perché così pochi? Perché insistere su un meccanismo premiale così selettivo di incentivo alla formazione? Perché immaginare che questa riforma possa entrare in vigore tra dieci anni (dieci anni nei quali non sappiamo né e come cambieranno i sistemi educativi oltre tutto il resto)? Quali sono i criteri per cui si individuano insegnanti migliori e più pagati di altri? Come può venire in mente di dare un bonus così generoso a una minoranza sparuta di una categoria che negli ultimi dieci anni ha perso, al netto dell’inflazione, tra i 60mila e i 70mila euro, e che chiaramente continuerà a impoverirsi? Su cosa sarà incentrata la formazione di questi corsi? Chi li gestirà? Saranno triennali? Che differenza di incarico ci sarà tra questa nicchia di insegnanti esperti e tutti gli altri, quale sarà il loro ruolo: di formatori, di insegnanti speciali, se, come dice l’articolo in Gazzetta, «la qualifica non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento»?

Se è difficile argomentare seriamente contro una novità la cui credibilità non regge nemmeno la fase dei commenti a caldo – non c’è stata una dichiarazione a favore, del resto – si può almeno ricordare come questo sia soltanto l’ennesimo sintomo di un equivoco ormai annoso: l’idea che si possano risolvere i deficit della qualità professionale dei docenti attraverso qualche (poco) ingegnoso dispositivo di meritocrazia.

La Buona scuola aveva introdotto il bonus del merito, elargito secondo criteri insondabili per stabilire i quali erano stati spesi infiniti collegi docenti. Il paradosso della meritocrazia è sempre lo stesso, quello messo in luce dallo stesso che ha coniato questo termine, Michael Young (L’avvento della meritocrazia): ossia chi è che decide chi è meritevole? E davvero dare più potere, o anche più denaro a questi supposti meritevoli, migliora il contesto complessivo su cui interveniamo? C’è anche un altro tema che non viene nemmeno nominato in questa parodia di discussione sul docente esperto. Non è diseducativo pensare di introdurre in quella che definiamo comunità educante dei superprof, delle figure fuori scala? In quale bibliografia pedagogica si trova una soluzione del genere per trasformare in meglio l’educazione per tutti?

Subiamo ancora dentro le nostre aule, nei collegi docenti, l’imprinting liberale e classista della nascita e dello sviluppo del nostro sistema scolastico: dalla legge Casati alla riforma Gentile, e non soltanto non lo mettiamo in discussione, ma escogitiamo i modi per alimentarlo e riprodurlo, adeguando le finalità della scuola all’ideologia della società.

Quando negli anni Settanta Marzio Barbagli e Marcelli Dei scrissero l’inchiesta sugli insegnanti Le vestali della classe media, mostrando come spesso l’ideologia dell’insegnamento non è liberatrice ma riproduce conformismo, non pensavano che nel tempo questo sarebbe diventato anche un culto gerarchico e iniziatico.

© Riproduzione riservata